“Se cade Rafah, cade Gaza”. Che sembra, secondo che lo si guardi da una parte o dall’altra, l’allarme di un generale attestato a difesa di una ridotta o l’augurio del nemico che la assedia. E invece quelle parole sono scappate di bocca a uno dei quattro avvocati che l’altro ieri, davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, chiedevano l’emissione di nuove misure a carico di Israele. In buona sostanza, la richiesta che la Corte ordini il ritiro da Gaza, l’immediata cessazione delle operazioni belliche e il ripristino del flusso degli aiuti.

Ma ipotizzare che qui si tratti della “caduta” di Gaza significa, appunto, porsi da un punto di vista diverso rispetto a quello che cura gli interessi della popolazione civile tragicamente coinvolta nelle operazioni belliche. Soprattutto, chiedere allo Stato sventrato il 7 ottobre di ritirarsi senza condizioni significa pretendere che rinunzi al tentativo di recuperare gli ostaggi superstiti e all’obiettivo di neutralizzare i tremilacinquecento miliziani che si nasconderebbero a Rafah: gli stessi che nei giorni scorsi hanno più volte preso di mira il valico di Kerem Shalom, cioè il punto di transito degli aiuti che, secondo l’accusa sudafricana, sarebbe stato chiuso da Israele in attuazione di un piano genocidiario per affamare la popolazione civile e privarla di ogni assistenza medico-sanitaria.

Una parola, “genocidio”, non casualmente era quella che con più frequenza ricorreva nelle requisitorie dei legali del Sud Africa. Una parola ripetuta nel corso di quattro round di accusa, preceduti da una prolusione sul razzismo e sui crimini del Paese che da settantacinque anni eserciterebbe sui palestinesi la propria azione usurpatrice. Tutte questioni su cui è ovviamente lecita ogni opinione, ma estranee all’oggetto del procedimento: il quale non è davvero rivolto a giudicare la presenza israeliana e la cosiddetta questione palestinese dal 1948 a questa parte, bensì a valutare se i dritti del Gruppo palestinese siano o no esposti al pericolo di pregiudizio che rende necessario un intervento della Corte dopo quelli di gennaio e di Marzo.

La ripetizione ossessiva della parola “genocidio”, dunque, non aveva fine tecnico ma impressionistico, perché la Corte ha già deciso che è plausibile l’esistenza, in capo ai palestinesi, dei diritti protetti dalla Convenzione. Questo è un punto tanto importante quanto di semplice comprensione: non si tratta in nessun modo di accertare, in questa fase, se l’azione israeliana ha i caratteri “genocidiari” su cui sente il bisogno di insistere il Sud Africa; si tratta di accertare se la situazione della popolazione palestinese sia tale da rendere necessaria l’emissione di nuove misure protettive.

Il ricorso sudafricano si basa su accuse gravissime: Israele avrebbe creato “zone di sterminio”, avrebbe perpetrato “distruzioni di massa”, sarebbe responsabile delle “fosse comuni” scoperte nelle scorse settimane e avrebbe approntato sistemi di intelligenza artificiale per compilare “liste di uccisione”. A supporto di queste allegazioni ci sono le testimonianze di un paio di soldati, raccolte da un giornale israeliano, le rilevazioni di un blog nonché un rapporto del 6 Maggio compilato da un gruppo di “esperti” tra i quali l’italiana Francesca Albanese, quest’ultima autrice di un pamphlet intitolato “Anatomia di un genocidio” che, recentemente, ha manifestato solidarietà a un noto attivista pro Hamas secondo cui tra gli ebrei “ci sono le merde e quelli meno merde” e che promuove online la vendita di “coltelli antisionisti”.

Questo scarto desolante tra la maestosità delle accuse e la povertà e poca credibilità dell’apparato documentale posto a sorreggerle non deve, ovviamente, far sottovalutare la situazione di spaventosa sofferenza cui indiscutibilmente è sottoposta la popolazione palestinese. Una situazione di gravità che potrebbe indurre la Corte a intervenire nuovamente, in particolare con misure rivolte a sollecitare Israele ad assumere iniziative di più efficace assicurazione del flusso degli aiuti e di maggiorata cautela nella conduzione delle operazioni belliche.

Esponendo i propri argomenti di difesa, nell’udienza di ieri, Israele non ha negato le immani sofferenze della popolazione civile, pur contestando che esse siano l’effetto di una deliberata e indiscriminata azione sopraffattoria. Ha detto che i civili sono tragicamente coinvolti, anche per responsabilità di chi li usa come scudi, in una guerra, non in un genocidio. Ha detto che l’assicurazione degli aiuti, cui Israele è in ogni caso impegnato, è resa difficile e spesso impedita dall’azione dei terroristi. Tutte difese controvertibili, ovviamente, ma sostanzialmente “chiamate” da accuse che, anziché documentare specifici casi di violazione e individuare precise modalità di intervento preventivo e riparatorio, preferivano rappresentare l’immagine dell’esercito sterminatore al comando di un manipolo di gerarchi assetati di sangue. Nei prossimi giorni la decisione della Corte.