Dopo la denuncia del Sudafrica
Israele, Gaza e il genocidio: la parola abusata nei media che la Corte dell’Aia ha smentito
Nelle operazioni belliche non bisogna commettere atti di violazione dei diritti protetti dalla Convenzione: viene così messo in chiaro che la programmazione, l’inizio e lo sviluppo dell’azione militare non costituiscono atti di genocidio
Ha fatto curiosamente poca notizia la decisione con cui la Corte Internazionale di Giustizia ha respinto le richieste principali che il Sudafrica aveva avanzato contro Israele nelle settimane scorse, cioè dopo l’emissione delle misure provvisorie assunte dalla Corte con il provvedimento dell’Aia del 26 Gennaio. Curiosamente, cioè, nel gran chiasso sul “genocidio” di cui Israele si sarebbe reso responsabile nel deliberare l’intervento a Gaza e nel darvi attuazione, è passata come se nulla fosse una decisione che pure si occupa della faccenda intervenendo esattamente sui diritti protetti dalla Convenzione contro il genocidio. Curiosamente, ancora, di quella decisione non si è scritto praticamente nulla nonostante il fatto notevole che la caratterizza, e cioè nonostante il fatto che essa rechi ulteriori misure nei confronti di Israele.
Curiosamente, infine, il generale silenzio su questa recentissima decisione (28 Marzo) si registrava mentre ancora rumoreggiavano le istanze e i proclami contenuti in un rapporto della signora Francesca Albanese, lungamente qualificabile come “Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967”, ma più nota per la teoria secondo cui gli Stati Uniti lasciano correre il crimine israeliano perché sono “soggiogati dalla lobby ebraica”, mentre gli europei – sempre copyright Albanese – si rendono complici di analoga noncuranza perché sono inibiti dal senso di colpa che li affligge dal tempo della Shoah.
Di fatto, il rapporto della signora Albanese – intitolato “Anatomia di un genocidio”, e articolato sull’assunto che “Israele ha distrutto Gaza” – fa uso circa sessantaquattro volte della parola “genocidio” (o “genocida”), chiaramente non per ipotizzarne la sussistenza né il pericolo di commissione, ma dando per scontato che il delitto sia consumato e accertato e raccomandando, sulla scorta di quella certezza, che gli Stati membri della Convenzione assumano direttamente iniziative di embargo e altre sanzioni contro Israele. Ebbene, l’intervento diretto degli Stati membri costituiva appunto l’oggetto delle istanze sudafricane che la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, con la decisione del 28 Marzo scorso, ha respinto, e questo significa in buona sostanza che la signora Albanese compilava il proprio rapporto mentre la Corte era investita della decisione su questioni, se non coincidenti, almeno largamente sovrapponibili, spostando sul piano della guerriglia comunicazionale e burocratico-diplomatica una materia già affidata alle cure di giustizia.
Non casualmente, la decisione della Corte dispone ulteriori misure a carico di Israele (principalmente rivolte ad assicurare il flusso degli aiuti alimentari e in campo medico) non già, come pretendeva il rapporto-requisitoria della “special rapporteur”, sul presupposto che Israele stesse violando gli ordini contenuti nella previa decisione del 26 Gennaio, bensì alla luce dell’aggravamento della situazione in cui versa la popolazione civile a Gaza, specie in termini di sostentamento alimentare e di insufficienza del presidio medico-sanitario. Anche il riferimento fatto dalla Corte all’azione più propriamente militare si atteggia in termini ben diversi, e ancora non sarà un caso che la questione sia – diciamo così – sfuggita all’attenzione dei più. Si dispone infatti che Israele, nell’azione militare, si astenga dal commettere atti che costituiscano violazione dei diritti protetti dalla Convenzione contro il genocidio: il che, mentre richiama i doveri già a suo tempo prospettati, chiarisce che la programmazione, l’inizio e lo sviluppo di quell’azione militare non costituiscono di per sé, come vorrebbero certe letture orientate, altrettante deliberazioni e attuazioni genocidiarie.
Tutto questo – specie considerando che la decisione della Corte impone a Israele doveri di ottemperanza tutt’altro che insignificanti, stabiliti sulla base di una attenta e addirittura appassionata preoccupazione per le condizioni della popolazione civile di Gaza – spiega molto bene che, in realtà, l’inesausto strepito intorno a quella dicitura – “genocidio” – monta per ragioni che hanno molto poco a che fare con la tutela delle vittime e perlopiù, se non esclusivamente, denuncia il desiderio di indirizzare il dibattito verso una prospettiva di puro contrasto del diritto di Israele di difendersi. Con un risultato, peraltro, nocivo per la stessa causa palestinese, che non ha bisogno di verità che diventano tali solo perché sono falsamente ripetute. E con un risultato nocivo, ulteriormente, per quelli che con buon diritto contestano questa o quella scelta esecutiva israeliana o anche tutte: perché un’allegazione di genocidio buttata lì da una discussa consulente dell’Onu rinserra i ranghi degli oltranzisti, che pure ci sono, e rinnega gli intenti e l’azione dei tanti, e sono tanti, coinvolti in una guerra che non volevano; e che combattono duramente, anche atrocemente, ma davvero non per annichilire un popolo. E la sensazione è che si discuta di genocidio non perché lo si teme e perché se ne prova orrore, ma per il gusto di addebitarlo.
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