Zingaretti apre una mano di poker, spariglia”. “Vuole la riconferma per essere più forte”. “Lascia davvero, non è più motivato”. Il ventaglio delle reazioni, delle letture, delle analisi a caldo tra i maggiorenti Dem indica che la confusione regna sovrana sotto il cielo del Nazareno. È da Facebook che i dirigenti apprendono la decisione, vergata con parole irrituali. «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni», scrive Zingaretti.

«Abbiamo salvato il Pd e ora ce l’ho messa tutta per spingere il gruppo dirigente verso una fase nuova. Ho chiesto franchezza, collaborazione e solidarietà per fare subito un congresso politico sull’Italia, le nostre idee, la nostra visione. Dovremmo discutere di come sostenere il Governo Draghi, una sfida positiva che la buona politica deve cogliere. Non è bastato. Anzi, mi ha colpito invece il rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto. Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni. Ma il Pd non può rimanere fermo, impantanato per mesi a causa di una guerriglia quotidiana. Questo, sì, ucciderebbe il Pd. Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione». Parole come pietre, soprattutto se lette in controluce. E che terminano con un sintomatico commiato: «A tutte e tutti, militanti, iscritti ed elettori un immenso abbraccio e grazie». Una chiamata di sipario che non autorizza a indugiare troppo sui tatticismi, sulla chiamata alla conta o su rapidi ripensamenti.

Il coordinatore dei sindaci Pd, Matteo Ricci, oggi il più vicino a Zingaretti in segreteria, la vede così: «È uno sfogo condivisibile, ma Nicola deve rimanere. Perché oltre Zingaretti c’è solo il caos. Se conferma le dimissioni non c’è la possibilità di fare un congresso nell’immediato, né le primarie. Non sarebbe neanche facile gestire una reggenza, e il Pd ne uscirebbe indebolito, creando problemi al governo Draghi», dice al Riformista. «Si apre uno scenario che non voglio neanche immaginare. L’assemblea deve respingere le dimissioni e dare un mandato forte al segretario». Come si sostanzierebbe? «Con un voto che dà sostegno incondizionato a Zingaretti, proponendo secondo me un congresso tematico, con lo scopo di discutere la missione che noi dobbiamo avere nel governo Draghi. Uscendo dai personalismi e dalle dinamiche di logoramento continuo cui stiamo assistendo». Concetto che torna: «L’assemblea del Pd respinga le dimissioni del segretario. Ci ripensino anche quelli che, in queste ore, hanno logorato il Pd. Siamo in gran tempesta, serve un nocchiero e un equipaggio», dice l’ex ministro per il Sud, Peppe Provenzano.

Zingaretti «ha accusato il colpo di un logoramento in atto da mesi, parallelo a quello subìto dal governo Conte», ricalca Stefano Di Traglia, uno che a lungo ha guidato la comunicazione Pd e conosce meccanismi e ingranaggi del quinto piano. Un parlamentare di lungo corso ci confida quel che ipotizza: «Franceschini ha un’ambizione, punta molto in alto e Bettini lo spalleggia: insieme hanno detto a Zingaretti che su Roma va sostenuta la Raggi e a Napoli, Fico. I Cinque Stelle in cambio daranno per il dopo-Mattarella una indicazione di continuità in seno all’anima cattolica Dem». A questo disegno, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, Zingaretti si sarebbe opposto. E in effetti nel J’Accuse del segretario il dito è puntato contro chi ha in testa “solo poltrone e primarie”. Avrebbe rotto l’accerchiamento, insofferente alla “guerriglia quotidiana”. «Perché gli hanno fatto capire che Gualtieri non doveva correre, avrebbe rotto l’accordo con il Movimento, e Nicola non poteva rinunciare a una candidatura in cui crede».

Non a caso due ore dopo l’annuncio è proprio Gualtieri a farsi vivo, dando in pasto alle agenzie un diario di campagna elettorale in corso: «Questa mattina, prima del passo indietro del numero uno, Gualtieri ha incontrato il segretario Pd del Lazio, Bruno Astorre, e quello capitolino, Andrea Casu, e ha espresso un indirizzo positivo rispetto a una sua possibile candidatura a sindaco di Roma». Pianta non una bandiera ma un ceppo miliare, Gualtieri: ormai il Rubicone è varcato, io ci sono. E può dirgli di no solo l’assemblea nazionale Pd del 13 e 14, a questo punto un autentico congresso anticipato. «L’Assemblea o elegge il segretario, o indice le primarie. Era una assemblea già convocata da giorni», dettaglia l’on. Claudio Mancini. «O l’assemblea accetta le dimissioni, o le respinge», precisa meglio. «Se le accoglie, l’assemblea può eleggere seduta stante il nuovo segretario, come fu per Epifani al posto di Bersani e per Martina dopo Renzi».

Le primarie dovrebbero tenersi subito, e le condizioni – con il Covid che avanza più che mai – sono proibitive. Dunque ipotesi reggenza fino a fine pandemia, poi primarie. E per l’eventuale reggenza sarà Zingaretti, già kingmaker dell’assemblea attuale, a dare le carte. «Potrebbe pensare a una donna», ci dice un parlamentare di Base Riformista. Per loro parla il silenzio. Si precipitano invece i pompieri: «Occorre chiedere a Zingaretti unitariamente di ripensare la sua decisione. Il Pd in un momento così difficile ha bisogno di un riferimento affidabile per affrontare le sfide della fase che abbiamo di fronte», dice il vice segretario e ministro del Lavoro, Andrea Orlando. Il senatore Luigi Zanda: «Conoscevo e comprendo le sue amarezze. Ma credo che l’Assemblea del partito debba respingere all’unanimità le sue dimissioni».

E l’immancabile Goffredo Bettini: «La decisione di Nicola mi addolora. Ne comprendo le ragioni. Spero ci sia lo spazio per un ripensamento». Mentre si fa sera tutto il dibattito interno si attesta su quella parola magica: ripensamento. Perché se Zingaretti fa sul serio e conferma le sue dimissioni, non c’è unanimità che tenga. La dinamica stessa delle dimissioni parla di uno scoramento profondo, inattutibile e esiziale: i dirigenti dem che erano con lui alle 15, riuniti sul voto amministrativo, non avevano percepito “alcun minimo accenno alle dimissioni” giunte alle 16,30. Lo hanno appreso improvvisamente, “rimanendone scioccati”. Adesso ci sono otto giorni per far cambiare idea a Zingaretti e assicurarlo che non c’è alcuna congiura prima dell’assise romana che si terrà, ironia della sorte, alle Idi di marzo.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.