Le dimissioni del segretario dem
Le dimissioni di Zingaretti sono una fuga: il Pd non riesce a stare al passo con Draghi
Se Zingaretti ha dato le dimissioni per fare un colpo di teatro che ha per obiettivo quello di essere rieletto per acclamazione all’assemblea nazionale costringendo al silenzio almeno per qualche mese gli odiati renziani, alcuni sindaci e Bonaccini, allora nulla quaestio: rientra nelle regole del gioco. Ovviamente i riflessi di questa iniziativa sull’elettorato, sull’Unione Europea e sul terreno della credibilità del partito sono tutti da verificare, ma con la velocità con cui oramai i media e i social metabolizzano tutto è possibile che entro marzo (se l’assemblea viene celebrata il 13 e il 14 di questo mese) venga tutto riassorbito e si passi a qualche altro casino rilevante, tanto manca solo l’imbarazzo della scelta.
Più complesso sarebbe il giudizio, ma saremmo sempre sul piano della logica politica, qualora le dimissioni costituiscano un modo abbastanza tortuoso per marcare il distacco dalla presidenza Draghi di tutta quella parte del Pd, riconducibile all’antica “ditta”, che aveva fino all’ultimo gridato: “Conte o le elezioni”. In questo caso Zingaretti sarebbe una sorta di testimonial di questa area che si rivolge in primo luogo a Mattarella e gli dice: «Caro presidente, noi avremmo gradito che tu avessi dato il terzo incarico a Conte perché siamo sicuri che a quel punto nel suk del Senato avremmo trovato i numeri necessari. Invece tu hai seccamente rifiutato questa ipotesi e hai aperto tutto un altro corso di carattere riformista ed europeista e hai messo in gioco perfino la Lega. A quel punto non potevamo certamente dire di no, me è bene che si accolli qualcun altro la responsabilità di guidare il Pd in questo contesto del tutto nuovo. Intanto oltre alle mie dimissioni diamo qualche altro segnale: i più faziosi di noi come Fabrizio Barca, Giuseppe Provenzano, Antonio Misiani contestano il governo per le consulenze alla McKinsey, adesso leggo Polillo che li mette alla berlina, ma si tratta di un primo calcio negli stinchi anche se tirato in modo scomposto».
È evidente che questa seconda ipotesi comporterebbe giudizi assai più complessi e per parte nostra del tutto negativi, ma saremmo comunque sul piano della logica politica. Allo stato non siamo in grado di valutare la veridicità di una di queste ipotesi per spiegare le dimissioni di Zingaretti. Qualora però non siano queste le motivazioni, allora francamente ci cadrebbero le braccia. In primo luogo, il suo attacco “mi vergogno del PD etc.” non è tale da giustificare le dimissioni da segretario, ma da motivare l’uscita dal partito. Andiamo oltre, al merito delle dichiarazioni di dimissioni. Ma alla sua età, essendo stato presidente della Provincia di Roma, poi presidente della Regione Lazio, quindi anche segretario nazionale del partito, Zingaretti scopre all’improvviso che il PD è diviso in correnti e che queste si distribuiscono i posti di governo e di sottogoverno? Ma, di grazia, come presidente della Regione Lazio quanti incarichi per assessorati e presidenze di azienda egli ha assegnato dopo un serrata trattativa con le altre correnti del suo partito? Anche adesso, in occasione della formazione del governo, egli stesso è arrivato al punto di togliere dall’economia un sottosegretario molto stimato per le sue competenze come Misiani, per sostituirlo con l’assessore al Bilancio della Regione Lazio Alessandra Sartore allo scopo di aprire uno spazio in giunta all’ingresso di Roberta Lombardi autorevole esponente dei grillini.
Insomma, quando Zingaretti dichiara che una delle ragioni delle sue dimissioni è costituito dall’esistenza delle correnti nel Pd che si dividono i posti fa un atto così singolare che potrebbe essere assimilato solo a un’altra ipotesi, che il dott. Salvi, procuratore generale della Cassazione, si dimettesse con la motivazione di aver appreso dal libro di Palamara e di Sallusti che l’Anm e perfino il Csm sono divisi in correnti e che le cariche, compresa la sua, sono state assegnate anche sulla base di una contrattazione e di una spartizione fra esse. L’altra motivazione di Zingaretti è stata quella di essere stato sottoposto da un continuo “martellamento” di polemiche da parte di esponenti del suo partito. Qualche osservatore esterno, un po’ malevolo, potrebbe rispondergli che, con tutti gli errori da lui commessi in questi due anni, è il minimo sindacale che poteva capitargli. Ma questa è già una risposta di merito.
Forse chi fa politica e che addirittura diventa presidente di una Regione e segretario nazionale di un partito non mette in conto di ricevere almeno dieci attacchi al giorno e non si attrezza per rispondere o anche per ignorarlo? Possibile che Zingaretti all’improvviso sia diventato così ipersensibile e così delicato? Adesso si parla delle aborrite correnti nel Pd è chiaro che chi le condanna sotto sotto rimpiange il centralismo democratico esistente nel meraviglioso Pci. Ma perché anche sotto quel regime forse i dirigenti del Pci si accarezzavano e lodavano l’un l’altro, magari prendendo il tè durante i Comitati Centrali e le direzioni? Ma Togliatti, che era Togliatti, e che a sua volta non scherzava (basta pensare al trattamento che riservò al povero Di Vittorio, a Secchia e a Valdo Magnani), nel 1961, dopo il XXII Congresso del Pcus non fu attaccato molto duramente da Amendola, Pajetta e Alicata? E a quel punto che fece Togliatti, si mise a piagnucolare o si dimise? No, minacciò di presentare una sua mozione e poi disse ad Amendola che era ancora un provinciale e che avrebbe dovuto viaggiare più spesso nei paesi dell’Est.
Questo e altro comparve sui giornali borghesi. E Ingrao avrebbe dovuto suicidarsi dopoché all’XI Congresso, per aver fatto un distinguo (non direi la verità se dicessi che mi avete convinto), fu sottoposto ad attacchi durissimi di Alicata e di Pajetta? Quindi se davvero Zingaretti si è dimesso perché all’improvviso ha scoperto l’esistenza delle correnti o perché Nardella, Bonaccini e Gori lo hanno criticato, francamente si rimane sorpresi. Non si può fare a meno di rilevare il momento in cui egli ha fatto tutto ciò. È un momento drammatico per l’Italia e una fase in cui è nato un nuovo governo con Mattarella che ha chiamato a presiederlo l’unica personalità di rilievo di cui oggi dispone l’Italia, cioè Mario Draghi. Per di più si tratta di un governo dal chiaro indirizzo riformista, europeista, garantista che casomai dovrebbe creare seri problemi per starci dentro a Salvini e alla Lega, non certo al Pd. Invece, grazie a Zingaretti, ma non solo a lui, le parti si sono rovesciate.
I ministri della Lega Giorgetti e Garavaglia (così come la Gelmini, Brunetta e la Carfagna per Forza Italia) stanno sul pezzo con grande efficienza e lealtà, Salvini per un verso con i sottosegretari ha coperto tutti i dicasteri delicati e poi, siccome rimane sempre Salvini, fa anche uscite del tutto a sproposito specie in materia di sanità e di vaccini. Invece Zingaretti ha lasciato scoperto nel governo proprio i dicasteri più delicati, cioè la Salute, l’Interno e, di fatto, l’Economia. Ma poi al di là della contingenza c’è una questione molto più profonda con cui il Pd dovrebbe misurarsi. Draghi sta spingendo al massimo livello il riformismo e l’europeismo del governo, ma il Pd è capace di competere davvero su quel terreno, quello del riformismo, dell’europeismo e del garantismo, proprio in sede di elaborazione del Recovery Plan? Vedendo le prime sortite dei Fabrizio Barca e dei Giuseppe Provenzano non sembra. E allora, può anche darsi che quella di Zingaretti sia una fuga davanti a responsabilità assai più impegnative di quelle evocate (le correnti e i maltrattamenti).
Quanto era più facile delegare tutto a Conte e a Casalino (e per altri aspetti sulle cose più drammatiche a Speranza e a Boccia)? Solo che Conte e Casalino avevano portato il paese in un vicolo cieco e l’errore più grave di Zingaretti è stato quello di non averli fermati in tempo, lasciando così un enorme spazio politico a Renzi (poi perché si è trattato di Renzi, che è il principale nemico di se stesso, prima egli ha fatto una mossa di straordinaria positività e importanza per il paese a cui ha fatto seguire un’incredibile cazzata andando a fare i salamelecchi al principe assassino). Come si vede, le dimissioni di Zingaretti aprono mille problemi, piccoli, medi e grandissimi.
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