1- PER LA COSTITUENTE DEL RIFORMISMO ITALIANO

Più che dell’identità, mi interessa discutere della funzione del Pd. La ricerca sulla prima, infatti, spinge lo sguardo verso partiti del passato (il Pci, la Dc, il Psi: “quelli sì che erano partiti…“ ). E allude quasi inevitabilmente al necessario “recupero” delle loro ben delineate identità, come se fosse possibile tornare al mondo pre-89, che della definizione di quelle identità era stato, a ben vedere, il principale fattore. La discussione sulla funzione del Pd mi appare più promettente: il Pd è nato per superare un problema che la sinistra italiana -unica in Europa– non è mai riuscita a risolvere (in realtà, non si è neppure proposta di affrontarlo): unire i riformisti in un partito dotato di vocazione maggioritaria (Mitterrand), capace di competere con i conservatori per la direzione politica del Paese.

Questa funzione, costituente e programmatica al tempo stesso, il Pd nato al Lingotto è riuscito a svolgerla per un periodo significativo della sua breve esistenza, facendo leva su due fondamentali fattori di coesione: lo spettro molto ampio delle culture politiche in esso presenti, che non esclude nessuna delle “fonti” del riformismo italiano, non pretende di metterle in ordine gerarchico e afferma le ottime ragioni della cultura politica semplicemente “democratica”. E la piena contendibilità della leadership e della linea politica pro tempore prevalenti, affidata alla decisione di un inedito (per la politica italiana) circuito di iscritti ed elettori più attivi, che conduce alla scelta finale di questi ultimi (le “primarie“ che concludono i congressi). Condizione perché questa funzione di “casa comune” dei riformisti possa essere svolta è la regola della piena accettazione, da parte di tutti i protagonisti del confronto interno, del risultato determinato dalla libera scelta degli elettori. Le due scissioni subite dal Pd -prima ad opera di Bersani e poi ad opera di Renzi-, hanno fatto venire meno questa condizione.

Non è in questione il carattere delle persone. E non rilevano -per significative che siano- le ragioni di difficile convivenza tra diversi che hanno indotto, in rapida sequenza, due leader del Pd scelti da milioni di elettori per quella carica ad abbandonare il partito. Certo, la crisi del Pd deriva da numerosi fattori, non tutti i “interni“ al partito stesso. Ma la consapevolezza del colpo subito dal cuore stesso della funzione politica per cui era nato -unire i riformisti, sparsi in partiti diversi, minoritari in tutti- dovrebbe suggerire di fare del prossimo congresso del Pd l’occasione per aprire -come ha scritto Giorgio Tonini– una «nuova Costituente del riformismo italiano, nella quale riscoprire e rilanciare le ragioni dell’unità in nome di una comune visione del futuro del paese». Aggiungo solo che, per il successo di questo tentativo, sarà decisiva la capacità di guardare più al contributo che può venire all’agenda riformatrice da ciascuna delle forze del largo campo riformista, che agli errori compiuti nella confusa fase che ha prodotto il suo progressivo restringimento. Un esempio varrà per tutti: nel giorno in cui in Senato faceva il suo esordio un governo al cui interno sono numerose le personalità di quell’area liberale e democratica che dovremmo riuscire a coinvolgere nella “nuova Costituente” del riformismo italiano, il Pd annunciava con il M5s e Leu la formazione dell’Intergruppo

2- EUROPEISTA E PER L’ALLEANZA TRANSATLANTICA

C’è una “visione del futuro del paese” che accomuni i riformisti italiani? La pretesa di definirla in chiave autarchica, alla sola dimensione nazionale, è certamente destinata al fallimento. Vale anche per il Pd e i riformisti quello che Mario Draghi ha detto, in Parlamento, riferendosi all’Italia: «Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere». Il futuro dell’Italia si costruisce, con l’Europa, nel mondo globalizzato, dove la sfida -come ci insegna Branko Milanovic– è tra il capitalismo liberal-meritocratico e il capitalismo politico. Se la sinistra liberaldemocratica vuole, cambiato il moltissimo che c’è da cambiare, svolgere efficacemente la funzione che è stata sua nei “trenta gloriosi” del secolo scorso (fornire una organizzazione, un sistema permanente di mitigazione degli effetti sociali negativi della distruzione creatrice del capitalismo, senza deprimerne il dinamismo), deve innanzitutto prendere coscienza di questa sfida, che propone “pericoli reali” (Biden).

Alla recente conferenza di Monaco il nuovo presidente degli Stati Uniti ha parlato di “assalto alle democrazie” da parte delle autocrazie, che cercano di “indebolire il progetto europeo e la Nato“. È una minaccia che preesisteva alla esplosione della pandemia, ma si è aggravata a causa del suo diffondersi e del concreto manifestarsi delle sue conseguenze economiche e sociali: di qui la proposta di Biden per una Alleanza transatlantica delle democrazie che tenga assieme contrasto alla pandemia, ricostruzione dell’economia, protezione del clima e nuove esigenze di sicurezza. È un’agenda che, nei paesi europei, impegna sia la sinistra, sia la destra. Ma in questo nuovo contesto le soluzioni della sinistra per nuove forme di coesione sociale e di più efficace contrasto delle disuguaglianze possono trovare più spazio per affermarsi.

Anche il processo di integrazione europea può subire una ulteriore accelerazione: dopo il grande passo compiuto col Next Generation Eu verso la costruzione di una politica fiscale dell’Unione, potrebbe ora essere la volta della politica della sicurezza, della difesa, della politica estera e del controllo delle frontiere. Tutti terreni sui quali il problema che è aperto -checché ne dicano i nazionalpopulisti di destra e di sinistra- non è quello di “cedere” sovranità dallo Stato nazionale all’Unione, bensì quello di recuperare, grazie all’Unione, la sovranità perduta: un gioco a somma positiva, per tutti i cittadini europei. Il nuovo protagonismo dell’Unione europea nel quadro di una rinnovata Alleanza transatlantica è ben descritto da due proposte distinte, ma tra di loro collegate. La prima è quella della costruzione del 28º esercito, avanzata qualche mese fa dalla Spd. Come il piano Next Generation Eu supera, in un sol colpo, la quasi stagnazione del debole “coordinamento“ delle politiche economiche e fiscali, così l’idea del 28º esercito rompe la stasi della “progressiva elaborazione di una politica di difesa comune” e propone di costruire il primo nucleo di un vero esercito europeo, il cui personale militare non sarà fornito dalle forze nazionali esistenti, ma reclutato ad hoc tra i cittadini europei.

Non sarà più soggetto al comando e alle strutture di comando nazionali e sarà subordinato alla Commissione Ue, attraverso un nuovo Commissario alla difesa. Il 28º esercito potrà essere dispiegato anche nel contesto della difesa collettiva dell’Unione e in quello della difesa dell’Alleanza insieme alla Nato. La seconda riguarda proprio la Nato, che deve certamente cambiare, ma ha ancora un grande compito da svolgere per garantire la sicurezza dei cittadini dell’Alleanza. In questo contesto, il presidente Biden ha avanzato la proposta di inserire tra le priorità della Nato la “sicurezza sanitaria”, per fare fronte a una minaccia che ha un livello di pericolosità analogo a quello del terrorismo.
È appena il caso di notare che l’una e l’altra proposta, per essere adottate e sostenute con successo, reclamano l’abbandono di certi tic consolidati della sinistra tradizionale: se si fa sul serio, le risorse di bilancio dedicate allo strumento militare certamente non possono diminuire e, in Europa, devono aumentare.

3- RIFORMISTA PERCHÉ GUIDA IL CAMBIAMENTO

Qual è stato il fattore scatenante della crisi del Governo Conte2? Per quasi due mesi siamo stati costretti a seguire i “virgolettati“ dei più valenti retroscenisti, impegnati a spiegare tutto con l’incrociarsi dei disegni di potere di Tizio e Sempronio, fino alle angosce dei nuovi “responsabili”. Non dovrebbe stupire nessuno che la maggioranza degli italiani abbia prima faticato, e poi scientemente rinunciato a capire. La mia tesi è che il destino del governo Conte2 fosse segnato già nell’autunno scorso, quando è risultato chiaro che esso non era in grado di collocare i singoli progetti per l’impiego delle risorse Ngeu in un ben delineato quadro di riforme strutturali. E quando è risultato chiaro che l’assenza di questo quadro non era determinata da un errore di chi (chiunque fosse) stava scrivendo il Recovery Plan, ma dalla strutturale impossibilità della maggioranza di governo di trovare un accordo sulle riforme fondamentali cui riferire ogni singolo progetto.

Gli organismi dell’Unione erano stati chiari: il Ngeu non è una pioggia di denari da spendere ognuno secondo il suo “nazionale“ discernimento. A fare da guida ci sono i problemi strutturali del paese, causa di squilibri reali o potenziali per l’intera Unione (per l’Italia, l’ultraventennale stagnazione della produttività, causa di bassa crescita, che a sua volta rende difficile la sostenibilità dell’elevato debito pubblico). E le conseguenti Raccomandazioni Paese. Il Piano di ogni singolo paese dovrà dare puntualmente conto del nesso tra riforma e concreto investimento delle risorse di fonte europea. Si deve trattare di un nesso misurabile e verificabile, secondo precise scadenze. Infatti, a più gravi problemi strutturali, l’Unione ha fatto corrispondere più elevati volumi di risorse, nella convinzione che solo attraverso una marcata disparità nell’assegnazione dei finanziamenti e dei prestiti si sarebbero ottenuti risultati di interesse comune, in termini di riduzione degli squilibri e di progressiva convergenza.

Quando è risultato evidente che il Governo Conte2 non era in grado -per eccesso di conflitto politico interno- di attuare la Raccomandazione in materia di pensioni (in Europa Quota 100 è stata giustamente considerata per quello che è: una misura nemica dell’occupazione e della sostenibilità del sistema previdenziale pubblico)… Quando è risultato chiaro che non c’erano contrasti nel progettare la digitalizzazione degli Uffici giudiziari e dei processi, ma era impossibile introdurre, con le necessarie garanzie per l’autonomia dei magistrati requirenti e giudicanti, la figura del manager del tribunale… Quando è risultato chiaro che c’era accordo unanime per decidere massicci investimenti sull’edilizia scolastica, ma non si parlava neppure di carriera degli insegnanti, di tenere le scuole aperte fino alle 18, di rafforzare l’Invalsi per la valutazione di tutti e di tutto, al fine di costruire effettive opportunità per gli alunni più sfortunati… Quando è risultato chiaro che non mancava il consenso per l’estensione dei necessari ammortizzatori sociali in deroga, ma latitava quello per riorganizzare dalle fondamenta il sistema delle politiche attive per il lavoro, riconoscendo il fallimento di questa parte della legge sul Reddito di Cittadinanza… Quando è apparso chiaro che il coro unanime di consensi per la priorità riconosciuta agli investimenti green, non sarebbe stato accompagnato da misure efficaci per dare soluzione strutturale ed europea al tema del trattamento dei rifiuti urbani (no, non nel senso di continuare a portarli in giro per l’Europa.

Nel senso di dotarci di impianti un po’ più avanzati delle discariche per smaltirli)… Quando si è visto che erano pochi e mal concepiti i progetti del Recovery Plan in grado di attrarre capitali privati, in un paese dove il risparmio privato è elevatissimo ed è ulteriormente cresciuto durante la pandemia… Ecco, è stato allora che si è capito che l’Italia rischiava di perdere un’occasione irripetibile per cambiare se stessa. Perché le riforme a costo zero, almeno all’inizio, sono veramente poche. Tutte le altre, costano. Sia perché c’è bisogno di “indennizzare” chi si sente, nel breve periodo, danneggiato dalla riforma stessa (esempio: la rivoluzione digitale e una parte del personale della Pa). Sia, soprattutto, perché la bassa produttività totale dei fattori italiana trova buona parte delle sue ragioni nel cattivo funzionamento di istituzioni economiche fondamentali (giustizia; istruzione; burocrazia) che possono cambiare solo se il bilancio pubblico è in grado di finanziare investimenti che, mutando gli incentivi, le “obbligano“ a farlo.

È ragionevole nutrire fiducia nella capacità del governo Draghi di consentire al paese di riappropriarsi di questa opportunità. Ma dopo il governo Draghi? Mentre assicura all’azione riformatrice del nuovo governo il proprio attivo consenso politico-parlamentare -reso “facile“ dall’obiettiva convergenza dell’agenda riformista del Pd e di quella vasta area liberale e democratica alla quale appartengono le personalità di maggiore spicco del Governo-, il Pd deve tornare a pensarsi come asse della proposta di governo alternativa a quella del destracentro. Negli ultimi mesi di vita del governo giallorosso -dal “Conte punto di riferimento fortissimo dei progressisti“ fino a “o Conte o elezioni“-, il Pd ha lasciato intendere (e spesso esplicitamente affermato) di ritenere inattuale questa funzione. Di qui la scelta di non presentare, già a settembre, una propria specifica proposta per il Recovery Plan; l’insistenza sulla legge elettorale proporzionale; e l’investimento di lungo periodo su Conte leader della coalizione Pd-M5s (la terza gamba, già debole di suo, si è nel frattempo divisa in due).

Il punto in questione non è l’alleanza o meno con M5s. Anche alla fine della nuova Costituente del riformismo italiano, che qui propongo, un’alleanza politica tra il Pd tornato a essere la casa comune dei riformisti e il M5s è tra le cose possibili e (forse) necessarie. Contesto invece che una simile coalizione -se il Pd resta quello che è oggi- abbia la capacità espansiva necessaria per competere vittoriosamente con la coalizione di destracentro, se quest’ultima riuscirà -garantendo per i prossimi anni il promesso sostegno all’agenda Draghi- a ridisegnare il proprio profilo in chiave europea, atlantica e liberale. In presenza di questa non scontata, ma possibile evoluzione dello schieramento avverso, il Pd non potrà più far leva sulla sua natura di partito-chiave per la difesa del sistema dall’assalto nazionalpopulista. Dovrà quindi chiedere voti non solo “contro”, ma “per“.

In una parola, dovrà essere il partito-chiave del cambiamento: la sua visione, il suo programma, il suo leader dovranno essere in grado di garantire rappresentanza e costituire il riferimento per quella maggioranza di italiani che apprezza la soluzione di emergenza oggi rappresentata dal governo Draghi; lo considera un progresso rispetto al governo precedente (di cui pure ha apprezzato lo sforzo per riportare l’Italia in Europa); e spera di poter accelerare domani, nel 2023, il passo del cambiamento, sotto la direzione di un governo riformista che ha scelto col voto, preferendolo alla coalizione di destracentro. Si può fare, ma non c’è più tempo da perdere.