1. Ricordiamo tutti il passaggio di consegne tra il governo Letta e il governo Renzi: una delle più sbrigative e gelide cerimonie della campanella che Palazzo Chigi rammenti. Era il 22 febbraio 2014: un tempo distante come il pleistocene, per la politica italiana ma ancor più per la biografia di Enrico Letta, ormai lontanissimo da quel «tengo il broncio, ergo sum». Non sarà, il suo, un ritorno all’insegna del risentimento: in politica come nella vita, il destino di chi si ostina a guardare indietro è quello della moglie di Lot, trasformata in un’immobile statua di sale.

Letta, invece, ha in mente un’idea di futuro: per capire quale, possiamo attingere ai suoi due ultimi libri, editi per il Mulino, ambedue dai titoli inequivoci: Contro venti e maree. Idee sull’Europa e sull’Italia (2017) e Ho imparato (2019). Chiuse le pagine di entrambi, il lettore non fatica a rintracciarne il denominatore comune nel rifiuto di ogni nuance di sovranismo.

2. «L’Europa è composta di due tipi di Stati: quelli piccoli, e quelli che non si sono ancora accorti di essere piccoli» (il copyright è di Emma Bonino). A questo sovranismo nazionalista, Letta contrappone la forza dei numeri: nel 2050, il pianeta dovrà sfamare 10 miliardi di persone. Nel frattempo, le classi medie dei paesi emergenti (in Asia, soprattutto), divorano quantitativi di energia sempre maggiori, aspirando legittimamente ai nostri livelli di consumo. Da qui i mutamenti climatici, il loro impatto ambientale, le crisi sanitarie. Ne siamo e ne saremo colpiti tutti, ma qualcuno in misura maggiore: gli innocenti (le generazioni future) e i meno responsabili (i paesi poveri, più estesi e meno protetti). Tutto ciò se ne frega dei confini nazionali e delle loro sentinelle sovraniste.

Con utopico realismo, Letta invoca la necessità di una policy che orienti il pianeta verso un modello di sviluppo capace di coniugare sostenibilità ambientale, crescita demografica, giustizia sociale. Ecco perché – paradossalmente – la difesa della sovranità nazionale passa attraverso la sua parziale cessione in ambiti di interesse comune. Letta lo sa bene: condividere sovranità statale è una forma lungimirante di altruismo interessato, perché solo a livello transnazionale possiamo vincere sfide che travalicano il nostro periferico cortile di casa.

3. Per ciò Letta è un europeista inossidabile, ma non dogmatico. Riconosce l’errore di aver creduto in un modello di sviluppo mainstream che ha aggravato le diseguaglianze. Da europeista, critica i governi rigoristi rifiutando l’equazione «minori diritti in cambio di maggiori opportunità». Descrive l’Ue come «un’unione di minoranze» dove nessuno domina sull’altro perché «l’Europa è il contrario di un progetto imperiale»: ai suoi occhi, mettere insieme 27 Stati, 24 lingue, 19 Paesi con una stessa moneta, dandosi una Carta dei diritti fondamentali dalla stessa forza giuridica dei Trattati, è il progetto politico e nonviolento più ambizioso e meglio riuscito dei nostri tempi.

Guardando avanti, per Letta non si può essere timidamente europei, altrimenti abbiamo già perso. Da qui la sua proposta di un’Ue a geometrie variabili, cerchi concentrici, velocità differenziate, dove concedere di più a chi vuole fare di più in termini di integrazione in ambiti decisivi: politica estera, politica di difesa e sicurezza, unione bancaria, un comune ministro delle Finanze e del bilancio. C’è dell’altro.

Se la sfida più impegnativa per la politica di oggi è «proporre il meglio, non l’alternativa al peggio», l’Europa può farlo soprattutto nel campo dei diritti frutto di tradizioni comuni: rifiuto della pena di morte, giuste condizioni di detenzione, tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale, diritto al lavoro, laicità, pluralismo confessionale, libertà di coscienza. Letta è giustamente convinto che solo attraverso una pragmatica «strategia dei valori» europei potremo collocarci tra chi organizza le regole del gioco globale (rule makers) invece di trovarci relegati tra chi applica regole scritte da altri (rule takers).

4. Vale, ad esempio, per il fenomeno migratorio, da sempre campo d’elezione per il sovranismo xenofobo interessato a non risolvere il problema per lucrarvi elettoralmente. Cifre alla mano, Letta svela la differenza tra realtà e percezione della questione: mentre i picchi di sbarchi sulle nostre coste non sono più quelli del passato, ad aumentare è il tasso di mortalità dei migranti nel Mediterraneo; mentre si alimenta la narrazione, giuridicamente fasulla, dei porti chiusi, ininterrotto è il flusso di extracomunitari in entrata con visti turistici a scadenza.

Per portare a soluzione il problema – scrive Letta – servirebbe «un Super Mario Draghi per la crisi migratoria»: aprire vie legali di accesso all’Europa, gestire i rifugiati a livello europeo (cambiando l’accordo di Dublino), creare corridoi umanitari con le zone di crisi (a evitare pericolose odissee in mare), controllare le frontiere esterne dell’Unione (senza appaltarne la gestione a paesi terzi) creando una polizia europea integrata, armonizzare le regole di accoglienza, promuovere una diplomazia culturale tra continenti (sfruttando il ruolo chiave degli Atenei).

5. Tra le cinquanta sfumature di sovranismo c’è anche quella populista. Senza reticenze, Letta ne rintraccia sintomi evidenti nelle leadership – in apparenza alternative – di Grillo, Salvini e Renzi. Comuni sono il linguaggio truce («vaffa, ruspa, rottamazione») e la postura politicamente aggressiva (asfaltare e delegittimare l’avversario). Comune è «l’idea che la propria discesa in campo segni l’anno zero della politica», ma anche la promessa non mantenuta che «mai, una volta raggiunto il potere, si sarebbero comportati come i predecessori». Comune è «la totale sovrapposizione tra la propria figura di leader e quella del proprio partito», come pure «l’esaltazione, a tratti perfino fanatica, della disintermediazione», e l’«appello diretto al popolo».

Ai diversamente populisti – alfieri di «annunci mediatici e produzione di racconti, privi di risultati concreti» – Letta contrappone il coraggio di «dire la verità [che] in politica vuol dire spiegare che la scelta di oggi non sarà proficua da domani mattina». All’uomo solo al comando, Letta contrappone le ragioni di una leadership politica condivisa, perché «i nostri sono i tempi delle coalizioni, non dell’uomo singolo; del team, non del grande talento solitario; dell’intelligenza collettiva, non della tattica individuale».

6. «Io ci sono», ha detto ieri. Accettando la candidatura a segretario del Pd, Letta interrompe un “esilio” di sette anni fuori dall’«acquario della politica romana», definiti i più intensi e carichi di insegnamenti perché «la vita personale influenza il pensiero». C’è da aspettarsi, dunque, che quanto fin qui maturato sarà portato dentro la politica italiana. Se ciò accadrà, la sua segreteria non sarà soltanto «il baricentro di qualsiasi alternativa alle destre» (come ha detto, benedicendola, Zingaretti). Sarà parimenti in radicale opposizione a qualunque populismo sovranista, dovunque alberghi.

Lo auspicava ieri il Direttore di questo giornale, invitando Letta a respingere «il ricatto dello schieramento obbligatorio» con un grillismo semmai da liquidare, nel nome di un nuovo e allargato riformismo di sinistra. Lo aspetta un compito titanico: rovesciare il tavolo delle liti correntizie nel partito. Riportare finalmente il Pd sul terreno delle idee e dell’agire, non solo ministeriale. Sfidare gli avversari esterni sulla capacità di rispondere a bisogni di generazioni aggredite da cambiamenti epocali. Difendere e contribuire a rigenerare la democrazia della rappresentanza politica e delle formazioni sociali intermedie. Lo attende una lotta politica a tutto campo da condurre insieme alla sua ritrovata comunità, perché – come recita il proverbio africano a Letta molto caro – «Se vuoi andare veloce, agisci da solo; se vuoi andare lontano, agisci insieme agli altri». Ben tornato e auguri vivissimi.