Sta facendo scalpore il simbolo con cui Enrico Letta si candiderà nel collegio uninominale di Siena per le elezioni suppletive a seguito delle dimissioni da parlamentare dell’ex ministro Padoan. Il simbolo in questione ha uno sfondo rosso sul quale è sovraimpresso in bianco, semplicemente, “con Enrico Letta”.

Che il segretario del più strutturato partito italiano rinunci a correre con il simbolo del suo partito fa a prima vista davvero impressione. Tuttavia la motivazione ufficiale è apparentemente lineare. Trattandosi di un collegio uninominale dove chi prende un voto in più dei suoi avversari vince, le offerte elettorali tendono a semplificarsi: i consensi dei partiti convergono sui candidati più forti per evitare una dispersione di voti. Diversi partiti accettano in tal modo, pur di dichiararsi vincenti, di non sostenere alcun proprio candidato, e ciò naturalmente nell’ambito di uno scambio dove in altri collegi avverrà l’esatto contrario. Nel caso specifico ad esempio Cinque Stelle e Articolo Uno hanno rinunciato a presentare propri candidati per consentire a Letta di essere eletto e di battere il candidato delle destre.

Tante vittorie locali, insomma, fanno una vittoria nazionale. Il Partito democratico d’altra parte acquisirebbe chances di eleggere il proprio candidato, che pur formalmente non risulta tale, pur essendo il segretario nazionale. Del resto non è la prima volta che autorevoli esponenti di partiti si candidano senza il proprio simbolo, anche se in passato gli espedienti grafici erano tali che spesso si preferiva integrare in qualche modo i simboli dei partiti all’interno del simbolo grafico depositato. Un effetto “patchwork” che si è preferito eliminare perché ritenuto, evidentemente, politicamente inopportuno. Né per l’occasione è nato, diversamente da altri casi passati, il simbolo della futura coalizione, che allo stato sarebbe composta dal nucleo duro di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Articolo Uno a cui certamente altri soggetti saranno invitati in futuro.

In conclusione Letta non si presenta con il simbolo del suo partito perché è il candidato di una coalizione, ma tale circostanza risulta solo per dichiarazioni politiche e fatti concludenti. Tutto chiaro? Più o meno, e comunque solo in Italia. All’estero anche questo “lineare” ragionamento susciterebbe grandi perplessità. Va da sé che in un collegio uninominale di regola si vinca con una minoranza di voti (la maggioranza relativa) e che ogni voto sia prezioso, perché v’è un’elevata utilità marginale. Tuttavia il prezzo che viene pagato è quello dell’identità partitica, che scompare, a favore di una identità coalizionale (che nel caso neanche si palesa). Alla fine il sistema pretenderebbe di reggersi su coalizioni e non su partiti. Ricordiamo che con queste strategie di coordinamento pre-elettorale e/o accordi di desistenza non tutti gli elettori e i militanti troveranno un proprio candidato sulla scheda.

È questo il fatto pressocchè incomprensibile all’estero, dove i sistemi parlamentari si basano sui partiti e non su coalizioni pre-elettorali. In Italia abbiamo inventato fin dal 1993 la coalizione a livello di collegio uninominale pur di non consegnare la vittoria all’avversario. Anziché dar luogo ad una libera competizione di idee tra partiti più o meno simili o dissimili che si andavano poi a collocare su un continuum parlamentare per formare maggioranza e opposizioni, abbiamo eretto una barriera tra il “noi” e il “loro”, distinguendo l’alleato dall’avversario e limitando la competizione – ove non sia prevista una quota di seggi eletti con liste (come però avveniva nel Mattarellum, con la quota proporzionale) – solo tra schieramenti e non tra partiti.

Queste idee si nutrivano della delegittimazione dell’avversario nonché, se si vuole, di governismo, per cui è sempre e comunque meglio che andiamo “noi” a governare che non “loro”. A qualunque costo. Il tutto dietro la nobile idea, però estranea alla nostra Costituzione, che le elezioni servano a dare mandati elettorali a governi e non solo ad eleggere rappresentanti al parlamento. Una funzione commessa alle elezioni, molto discutibile, che peraltro nel caso di specie di Letta non si palesa perché si tratta di una elezione suppletiva, ma che prelude – appunto, ed è il punto vero – alla ripresa di questo schema, noto come bipolarismo forzoso e muscolare. O di qua o di là; le maggioranze le fanno gli elettori; le elezioni servono a scegliere i governi, e quindi la mobilità parlamentare di singoli e perfino quella dei gruppi è il male, con buona pace di articoli della Costituzione come l’1 (secondo cui la sovranità popolare è limitata dagli istituti costituzionali), 67 (secondo cui i parlamentari sono privi di vincolo di mandato e liberi di apprezzare la situazione politica alla luce degli interessi nazionali) e 94 (secondo cui il governo ottiene la fiducia delle camere, e non del corpo elettorale).

Un bel pasticcio. Sono questi assunti su cui si è fondata la cd. Seconda Repubblica. Che però è notoriamente fallita, perché ha assicurato prestazioni di governo davvero scadenti. Tale fase della Repubblica auspicabilmente sembrava terminata con il governo Monti, che interrompeva il movimento di pendolo impotente tra centro-destra e centro-sinistra andato avanti dal 1994 al 2012, cioè per quasi vent’anni. Come è noto da allora ci troviamo in una transizione nella transizione, anche perché l’emergere prepotente del Movimento Cinque Stelle fece a pezzi il bipolarismo parossistico ma ormai esausto presente ancora nelle elezioni del 2008.

Il punto è dunque come si esce dalla transizione: con le stesse idee fallimentari di sempre? Stiamo andando verso elezioni politiche che rimuovendo il portato dell’esperienza Draghi – un governo nato da una legittimazione puramente parlamentare – torneranno al bipolarismo tra centro-destra e centro-sinistra secondo gli schemi, inediti a livello europeo, degli anni scorsi? Solo alla luce di queste domande si spiegano le scelte di Siena e i movimenti nel centro-destra per una federazione, a scanso del fatto che il centro-destra è diviso. Dall’Agenda Draghi, innanzitutto, che è un’agenda nazionale. E come si vede, incidentalmente, il centro sinistra lancia messaggi a misura per ricompattarlo, pur sapendo che in tal caso non sarebbe competitivo.

Non v’è nulla di male nel bipolarismo, che anzi tende ad essere naturale in un sistema che funzioni senza patologie. Ma il nostro bipolarismo finisce con l’essere senza anima e, come si vede, senza identità. E questa è, precisamente, una patologia sistemica del sistema istituzionale. È un bipolarismo contro. Anti. Tende a rimuovere che secondo la Costituzione le maggioranze si fanno in parlamento e non in sede elettorale con arzigogoli tecnici, che peraltro non riescono quasi mai nello scopo (con un bicameralismo perfetto oggi addirittura confermato e rafforzato…) ma pretendono di ingessare il sistema nelle sue libere dinamiche. Il militante e l’elettore, poi, vengono continuamente coartati in nome di un male minore e non sono in condizioni, se non raramente, di votare per il candidato del loro partito, l’unico in cui davvero dovrebbero riconoscersi.

Un sistema, se ci si pensa, a misura del ceto politico, che va benissimo ad esempio al dirigente di Articolo Uno che trova la sua garanzia della elezione (altrimenti impossibile) nella spartizione dei collegi a livello nazionale ma non a misura di cittadino e militante, che vorrebbe vedere le proprie idee rappresentate nel momento in cui esercita il diritto di voto. In tal modo è anche evidente che i rapporti di forza tendono a cristallizzarsi e che i movimenti di opinione vengono attenuati, almeno fino a quando non emerge un partito, come sono stati i Cinque Stelle, indisponibili a compromessi pre-elettorali. La straordinaria ascesa dei Cinque Stelle è avvenuta proprio sulle ceneri di un sistema fallito, e Grillo e Casaleggio sono stati prontissimi a comprenderlo.

Con un sistema basato sulle alleanze pre-elettorali le culture politiche sbiadiscono e non si rivitalizzano – salvo appunto outsider – e la competizione tra schieramenti è segnata dai contenuti più divisivi e radicali, rendendo poi difficile al Parlamento di fare il proprio lavoro di sintesi e mediazione. Di questo dibattito – cioè dei sottesi di scelte come quella di Siena e, in particolare, della necessità di un recupero delle identità partitiche – non v’è nessun segno nella polemica odierna sul simbolo con cui si candida Letta. Eppure tornare ad essere un paese normale anche per le dinamiche istituzionali, una vera democrazia parlamentare, sarebbe fondamentale.