Condivido con Fausto Bertinotti lo spirito di apertura e di dialogo per un confronto serrato non certo per una rissa. Nel suo campo i dogmatici e i faziosi sono ben altri. Poi come Fausto sa bene i peggiori fra tutti sono i dorotei (che è una sorta di categoria dello spirito equamente distribuita in tutti i partiti e schieramenti) che preferiscono un rigoroso silenzio perché considerano un lusso inutile la battaglia delle idee e molto più efficace il ricorso alle tecniche della gestione del potere svolte direttamente o per interposto giornale o per interposto pubblico ministero. Con tutta questa genia, non con i comunisti-operaisti come Bertinotti, ho tuttora uno spirito più che “guerresco” (la guerra, quella vera, l’hanno fatta loro alcuni anni fa), ma duramente conflittuale.

Non è stato certamente l’operaismo, ma l’ultima versione del berlinguerismo, quella dei cosiddetti “ragazzi di Berlinguer”, che ha lavorato in modo scientifico a “spegnere”, come diceva Machiavelli, il socialismo italiano e Bettino Craxi. I “ragazzi di Berlinguer” non hanno affrontato il 1989, realizzando un proprio autonomo revisionismo che desse il senso di un trapasso culturale e storico dal comunismo italiano alla socialdemocrazia e all’Internazionale Socialista. È quello che invece hanno provato a fare con tutti i loro limiti e contraddizioni i tanto vituperati miglioristi (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso e Ranieri) che non a caso sono sempre stati minoritari nel partito e in più di un’occasione hanno rischiato la pelle. Poi, per applicare fino in fondo anche al Pci quella che Togliatti chiamava “l’analisi differenziata” (che in effetti applicò quasi a tutti, anche ai fascisti, molto meno all’Urss), fra i “ragazzi di Berlinguer” ci sono state due opzioni: quella del tutto utopica di Achille Occhetto, che puntava a superare il comunismo italiano da sinistra recuperando temi e suggestioni da Pietro Ingrao, e quella, tutta fondata sulla realpolitik di D’Alema, Violante, Veltroni (al di là delle sue variazioni sul tema).

Come è noto il tentativo di Occhetto fu reso impraticabile da due lati, dallo stesso Ingrao che non voleva superare il comunismo, ma “rifondarlo” e, appunto, dalla componente “realpolitik” dei “ragazzi” che nel frattempo si era collegata in modo profondo a una parte dell’establishment bancario, mediatico, giudiziario di questo paese (esemplare il loro rapporto organico con la Repubblica di Scalfari e di De Benedetti) giocando tutta la partita sull’ingresso nell’area di governo. Questa componente ereditò, gestendola ad un livello più basso ma anche molto concreto, la preclusione berlingueriana nei confronti di Craxi per cui cavalcò fino in fondo quel giustizialismo ispirato sia da un’area della magistratura, sia da Repubblica, sia da un settore del mondo imprenditoriale italiano che aveva dovuto rassegnarsi a lasciar svolgere un ruolo egemone alle forze politiche, in primo luogo alla Dc e poi anche al Psi, fino a quando c’era stata la divisione del mondo in due blocchi e in qualche modo il “pericolo comunista”.

Quel pezzo assai aggressivo del mondo imprenditoriale ritenne che era venuto il momento di togliere la “delega” alla politica e ai partiti. Di conseguenza esso utilizzò il suo volume di fuoco mediatico, si liberò della Dc e del Psi cavalcando Mani Pulite. Lo fece con la massima faccia tosta perché proprio le grandi imprese, in primo luogo la Fiat, erano state l’anima strutturale del sistema di Tangentopoli che via via aveva coinvolto tutto e tutti, sistema di potere del Pci compreso. In quel sistema non esistevano certo dei poveri concussi come spiegarono nelle loro lettere ai Pm di Milano la Fiat e la Cir, Romiti e De Benedetti che sarebbero stati quotidianamente minacciati e rapinati dai perfidi e arroganti concussori nelle persone di Craxi, di Forlani e dei loro accoliti.

Siccome, poi, nello svolgimento dell’operazione a un certo punto qualcuno spiegò a “lor signori” e al pool di Milano che non si poteva far tabula rasa di tutte le forze politiche, ecco che, anche per ragioni di rapporti di forza, fu realizzato un atipico compromesso storico fra queste componenti dell’operazione di Mani Pulite con i “ragazzi di Berlinguer” che, come spiegò lucidamente Massimo D’Alema, ragionava rigorosamente in termini di occupazione degli spazi politici e di potere: «Eravamo come una grande nazione indiana chiusa fra le montagne con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista, in sostanza un progetto annessionistico. Come uscire da quel tunnel? Questo era il nostro progetto strategico: come trasformare il Pci senza cadere sotto l’egemonia craxiana che avrebbe segnato la disfatta della sinistra. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi.

Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affaristico avvinghiato al potere democristiano. Questo era il nostro vero dramma. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta, diventare noi il partito socialista in Italia». Tutto ciò si fondava su una grande mistificazione: come tu ben sai, caro Fausto, il Pci era fra i partiti italiani quello che aveva più fonti di finanziamento irregolare, sia detto senza alcun moralismo: dal finanziamento proveniente dall’Unione Sovietica alla rendita petrolifera dell’Eni, alle cooperative rosse, a una miriade di aziende private.

Non a caso, diversamente dai miglioristi, quel settore del Pds, forse con l’eccezione di qualche riflessione culturale sviluppata da Piero Fassino, fu assai parco sul terreno della revisione ideologica, ma invece assai aperto e attivo su quello delle privatizzazioni. In qualche caso, taluno dei “ragazzi di Berlinguer” si impegnò a tal punto su quel terreno da guidare anche una cordata di “capitani coraggiosi” venendo però contrastato dall’interno stesso del gruppo dirigente del Pds da parte di coloro che oramai avevano rapporti organici con l’establishment finanziario ed editoriale di questo paese. Queste sono le ragioni, caro Fausto, per le quali mantengo una contestazione di fondo che non è certo rivolta al “comunismo” come categoria dello spirito avendo anche la consapevolezza che la dialettica fra quella ipotesi culturale e quella socialista nel senso classico appartiene per larga parte a un passato prestigioso, ma certamente superato.