Recessione e isterismi
Attaccare l’Europa ora vuol dire condannare l’Italia al declino

Il Coronavirus ha dissuaso l’opinione pubblica: nessuno si azzarda più a sostenere che ‘’uno vale uno’’ (anche se nelle urne elettorali è così). Sono tornati in auge lo studio, la competenza, i titoli accademici, i diplomi dei master, l’appartenenza all’agenzie nazionali e internazionali, le pubblicazioni. I virologi si atteggiano a “Guide supreme” nella lotta all’epidemia maligna; si disperdono nei talk show (che se li contendono) ognuno dicendo la sua. Sono loro ad avere l’ultima parola con un governo a cui ‘’danno la linea’’ perché non ha la forza politica di sfidarli davanti a un’opinione pubblica terrorizzata e sobillata da decine di ore di trasmissioni televisive che non sanno parlare d’altro e che trattano il tema sulla base di una visione arrogante che non ammette repliche, né dubbi, né interrogativi.
Il fatto è che – saremo malevoli – non si capisce a che cosa serva tanta scienza, se i nostri taumaturghi, nel XXI secolo, sanno solo indicare le terapie in uso ad Atene per combattere l’epidemia di peste, ai tempi di Pericle. Qualcuno si spinge fino al Medioevo, ma con qualche incertezza. Investiti del potere di decidere sulla nostra libertà reagiscono con lo stesso fanatismo talebano che troviamo scritto – per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia sulla facciata dell’omonimo Palazzo di Milano: ‘’Iustitia fit, pereat mundus’’. Basta cambiare la parola ‘’iustitia’’ con ‘’salus’’ e il gioco è fatto.
Solo che, da noi, il paradosso giuridico si sta rivelando un dato reale: il ‘’mundus’’ perisce davvero, nell’inerzia e nella paralisi. Alle 18 di ogni sera la Protezione civile fa il bilancio delle vittime della giornata. Ma non ci dice, ad esempio, che l’agricoltura è abbandonata a se stessa (ecco l’allarme di Teresa Bellanova) e che gli scaffali dei supermercati – a cui i cittadini devono attingere come se disponessero di una tessera annonaria – per essere pieni devono essere prima di tutto riempiti. E che, di conseguenza, non basta evocare le esigenze di “prima necessità” perché i relativi beni siano disponibili. In breve, non stiamo mettendo a rischio solo il benessere, il lavoro, i servizi e l’economia della parte più sviluppata del pianeta (e quindi pure dell’Italia); ma presto – continuando a lottare sul divano di casa – emergeranno seri problemi a garantire un’adeguata sussistenza.
Il Fmi ha pronosticato un crollo del Pil superiore a 9 punti. Ma anche la Confindustria non si è fatta mancare nulla per annunciare una situazione sull’orlo del collasso. Nell’ipotesi che la fase acuta dell’emergenza sanitaria termini a maggio 2020 e che l’attività produttiva riprenda gradualmente da fine aprile a fine giugno – ha previsto il Centro Studi (Csc) di viale dell’Astronomia – occorrerà mettere in conto un calo del Pil, in Italia, del 10% nei primi due trimestri, rispetto alla fine del 2019, seguito da un parziale recupero nella seconda metà dell’anno, in forza del quale, nella media del 2020, il Csc ha previsto una caduta del Pil pari al -6%. Ma nel caso in cui la situazione sanitaria non evolvesse positivamente (e continuasse dunque la quarantena), il Csc ha stimato che ogni settimana in più di blocco normativo delle attività produttive, secondo i parametri attuali, potrebbe costare una perdita ulteriore di Pil nell’ordine di almeno lo 0,75% (l’equivalente di 13 miliardi). Ed è in tale contesto che la politica nostrana ha trovato il modo di polemizzare con l’Unione europea.
Chi scrive non ha ascoltato la conferenza stampa di Giuseppe Conte che ha suscitato tante polemiche per i toni usati nei confronti delle opposizioni. Personalmente credo che tutti gli insulti in tutte le lingue e i dialetti del mondo (con tanto di traduzione simultanea) non bastino per stigmatizzare la linea di condotta di Matteo Salvini. Attaccare le istituzioni europee in questo momento significa non solo essere in palese malafede, ma condannare il Paese a un declino precipitoso ed inesorabile, costringendolo a rifiutare persino gli aiuti. Le istituzioni europee hanno disposto un piano di difesa dell’economia degli Stati membri di una dimensione tale che nessuno avrebbe mai immaginato.
Carlo Cottarelli, in un articolo su La Stampa, ha voluto ricordare i capisaldi degli interventi predisposti: la sospensione a tempo indeterminato delle regole fiscali; 100 miliardi per finanziare lo Sure.’ ovvero lo strumento di erogazione di prestiti agevolati per sostenere i sistemi di protezione del lavoro (all’Italia dovrebbero spettare tra i 15 e i 20 miliardi); 200 miliardi sono stati messi a disposizione dalla Bei (che saranno ripartiti sulla base dei progetti presentati); 220 miliardi verranno dalla Bce per l’acquisto di titoli di stato italiani; la trasformazione del Mes in “Salva Europa” dall’epidemia Covid-19, da usare subito per aumentare le capacità delle strutture sanitarie, ospedali e centri di ricerca. Per l’Italia questa operazione vale circa 35 miliardi.
Il governo però ha ritenuto di ‘’impiccarsi’’ (copyright di Mario Monti) alla proposta degli eurobond (‘’spezzeremo le reni all’Olanda!”) e non si accontenta della mediazione intervenuta nell’Eurogruppo: la proposta al Consiglio UE di istituire un Fondo per la ricostruzione dell’Europa “da finanziare anche con strumenti innovativi”. Il quadro di garanzie definito è rassicurante e, soprattutto, è in grado di essere operativo con una rapidità che non sarebbe possibile attraverso l’istituzione degli eurobond (un sarchiapone finanziario), non solo per le difficoltà politiche, ma anche per quelle tecnico-giuridiche che l’operazione comporterebbe, prima di tutto perché l’Unione non ha un patrimonio proprio con cui garantire le emissioni.
Guai a voler fare il passo più lungo della gamba. Dobbiamo mettere l’economia in terapia intensiva, assicurando la liquidità di cui hanno bisogno le famiglie e le imprese. E soprattutto seguendo la strada di Luca Zaia: rimettiamo in moto l’economia, con tutti i possibili vincoli di sicurezza negoziati tra le parti. E per carità, evitiamo di affidare a un gruppo di esperti (la task force per la fase 2 presieduta da Vittorio Colao) il compito di indicare i possibili approdi dell’economia del cambiamento. Il sistema produttivo chiede soltanto di essere rimesso in moto; non ha bisogno di un navigatore che gli indichi i percorsi da imboccare.
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