«Ma quando Zarathustra fu solo, così parlò nel suo cuore: “Sarebbe mai possibile! Questo vecchio santo nella sua foresta non ha saputo ancora che Dio è morto?”». Mi sono ricordato di questo brano dell’opera di Friedrich Nietzsche, quando ho letto – con l’attenzione che meritano gli autori – gli articoli sulle prospettive del socialismo dopo la pandemia. Per arrivare subito al punto parto da quanto ha scritto – con riferimento alle conclusioni del contributo di Fausto Bertinotti – Gianfranco Polillo (“Covid-19. Solo il socialismo ci salverà”). «Fausto Bertinotti, in un intervento recente (Il Riformista 27/3), che riecheggiava le nostre stesse preoccupazioni, si chiedeva se la risposta alle questioni poste dalle drammatiche condizioni evidenziate dalla presenza del virus non dovesse essere la “ricerca di un’alternativa di società”. Per poi concludere: “Ma dove sono le forze per provarci?”». Mi verrebbe da dire: «Ma non ha saputo il mio amico Gianfranco che il Socialismo è morto?».

Ma il punto, a mio avviso, sta nel dubbio di Bertinotti (il quale non ha mai smesso di credere – al pari di Diogene – nella “ricerca di un’alternativa di società”) sul fatto che vi siano “le forze per provarci”. Non so a quali forze si riferisca l’ex presidente della Camera. Vi è certamente un problema non solo di leadership e di classe dirigente, ma di “forze” politiche e sociali: in sostanza di un popolo in cammino come quello del “Quarto Stato” rappresentato nel quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo. In verità, i tradizionali e secolari confini tra destra e sinistra o non esistono più o non sono più in grado di evitare la contaminazione delle idee con quelle del populismo. Spesso le classi lavoratrici sono diventate la nuova base elettorale delle forze populiste, le quali promettono – nell’ambito di politiche isolazioniste, protezioniste e sostanzialmente xenofobe – il ripristino di quelle tutele e garanzie, messe in crisi dai processi economici e sociali connessi alla globalizzazione.

La sfida planetaria aperta tra internazionalizzazione dell’economia, libertà ed integrazione dei mercati, da un lato, e neoprotezionismo, dall’altro, nel Vecchio Continente si traduce in un confronto decisivo tra europeisti e “sovranisti”. Questo scontro non ha soltanto un profilo di carattere istituzionale e culturale, ma si riversa immancabilmente sulle politiche economiche e del lavoro, in cui è più marcata e significativa la convergenza dei populismi di destra e di sinistra; al punto da influire anche sulle scelte dei partiti “storici”. In sostanza, è la demagogia a tenere banco, contro l’equilibrio dei bilanci pubblici, la sostenibilità dei sistemi di welfare: quelle condizioni che dovrebbero essere le premesse irrinunciabili della stabilità e della crescita.

Le politiche tendono a confondersi. Le posizioni dei “sovranisti” italiani sono note: mescolano tra loro, in una sintesi devastante, isolazionismo politico e demagogia sociale. Che fare allora? Il dramma dell’epidemia ha accelerato anche nei processi decisionali lo scontro sulla prospettiva dei futuri ordinamenti istituzionali, dell’economia, del vivere civile nel Vecchio Continente. In fondo si ripropongono ancora una volta quelle che Macron definì, nel suo discorso alla Sorbona, le «passioni tristi dell’Europa»: nazionalismo, identitarismo, protezionismo, sovranismo. Già in un articolo pubblicato il 3 gennaio 1945 Luigi Einaudi definiva lo Stato sovrano come «il nemico numero uno della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste.

Il concetto dello Stato sovrano, dello Stato – proseguiva – che, entro i suoi limiti, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuori di quei limiti è oggi anacronistico e falso. Quel concetto non è che un idolo della mente giuridica formale e non corrisponde ad alcuna realtà». Ed aggiungeva in seguito: «Pensare che uno Stato, sol perché si dice sovrano, possa dare a se stesso leggi a suo libito, è pensare l’assurdo». Di nuovo ribadiva il suo pensiero così: «Gli uomini, nella vita moderna signoreggiata dalla divisione del lavoro, dalle grandi officine meccanizzate, dalle rapide comunicazioni internazionali, dalla tendenza a un alto tenore di vita, non possono vivere, se la loro vita è ridotta nei limiti dello Stato. Autarchia – concludeva – vuol dire miseria» . E le guerre sarebbero scomparse del tutto «nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore l’idolo immondo dello Stato sovrano».

Oggi il conflitto tra capitale e lavoro è solo un problema di distribuzione del reddito: una competizione fisiologica, che resta all’interno del “sistema” e che ha perduto ogni significato escatologico. La sfida che deciderà il futuro dell’umanità si svolge tra l’idea della società aperta e il ritorno al sovranismo, alla chiusura dei mercati e del commercio internazionale. Una sfida in apparenza diventata ardua se non impossibile dopo i guasti provocati dalla pandemia. Ma sono i valori della società aperta i soli in grado di indicare una prospettiva di salvezza e di ripresa.

Il Covid-19 non rappresenta la Torre di Babele il cui crollo confonde i linguaggi degli esseri umani. È piuttosto l’enorme palla d’acciaio che riporta l’ordine tra i concertisti nel film Prova d’orchestra di Federico Fellini. Il socialismo del XXI secolo (inteso come istanza di progresso e di modernizzazione, non come resurrezione di una ideologia) sta dalla parte della società aperta, con quanti ne condividono i valori.

Non ha importanza dove risiede il popolo del “Quinto Stato”: se nei quartieri alti, nelle zone ztl o nelle periferie urbane. Ampi settori della classe lavoratrice sono passati al “nemico”. La responsabilità di questa scelta appartiene soltanto a chi l’ha compiuta. Basta chiedere scusa ed assegnare d’ufficio un ruolo progressista a quella che una volta si chiamava “classe operaia”. Per “provarci” è necessaria una nuova alleanza politica tra le forze sociali innovative. Dovunque esse si trovino.