Apparentemente la proposta di “fondare un partito socialista” (Fabrizio Cicchitto, Il Riformista di sabato 21) è anacronistica. Non solo perché i partiti socialisti in Europa vennero fondati più di un secolo fa: soprattutto perché non hanno retto alla prova del 1989, quando ebbero l’occasione di dimostrare che il loro ruolo, nel lungo dopoguerra, non si era limitato a fare da antemurale al comunismo, e restava quindi integro dopo la scomparsa dell’antagonista.
La Spd, per esempio, pur avendo avuto – prima con l’Ostpolitik di Brandt, poi con gli euromissili di Schmidt – un ruolo non indifferente nel provocare il crollo dell’Urss, lasciò a Kohl l’onore e l’onere di gestire la riunificazione tedesca. Mentre Mitterrand mantenne Delors in un ruolo “tecnico”, senza peraltro riuscire a difenderne le idee contro un dinosauro come Chevenement.

Fu allora, alla fine della guerra fredda, che non si seppe (o non si volle) dar vita ad un nuovo “compromesso socialdemocratico” come quello che si era imposto nei trent’anni gloriosi seguiti alla fine della guerra “calda”. E fu allora che Mitterrand il compromesso lo fece con Kohl, per garantirsi un ruolo nell’Europa a trazione tedesca: mentre la Spd interinò i precetti dell’ordoliberismo senza neanche una Bad Godesberg che lo giustificasse.

Non è un caso, del resto, che il primo partito socialista a soccombere – dopo il Psi, mandato al rogo nell’arena del circo mediatico-giudiziario – sia stato il Pasok, che fra l’altro esprimeva addirittura il presidente dell’Internazionale: e che crollò non perché era ancora un partito semipatriarcale (patriarchi e dinosauri non mancavano e non mancano neanche negli altri partiti socialisti europei), ma perché venne lasciato solo nel confronto con i custodi dell’austerità.

I quali peraltro non erano solo i neoliberisti, visto che quando vennero fissate le politiche fiscali dell’Unione che avrebbero spezzato le reni alla Grecia i partiti socialisti erano al governo in 14 dei 15 paesi che allora ne facevano parte. Gran parte di quei partiti, peraltro, amavano ormai definirsi “riformisti”, piuttosto che socialisti: e c’era perfino chi pretendeva di aver costruito “la casa di tutti i riformisti”. Non si trattava, probabilmente, di semplice nicodemismo nei confronti del pensiero unico sulla fine delle ideologie. Si trattava piuttosto della coazione a ripetere la stessa fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’innovazione che aveva gonfiato le vele della socialdemocrazia nei trent’anni gloriosi. Eppure già a metà degli anni ’80 Norberto Bobbio ci aveva avvertito che l’endiadi progressismo/riformismo era obsoleta: perché ormai, “se per riformismo si intende il partito del cambiamento, riformisti sono gli altri”, e comunque “dove tutti sono riformisti nessuno è riformista”.

Per Bobbio, invece, il riformismo andava definito “come azione o insieme di azioni prolungantisi nel tempo indirizzate al cambiamento in base a progetti”: per cui in questione – già allora – non era “tanto il riformismo, quanto il socialismo”, anche se “sbattuti dal vento della crisi delle ideologie abbiamo perso la bussola”. Mai come ora, peraltro, quella bussola può rivelarsi preziosa per orientarci nel deserto in cui ci ha scaraventato la pandemia. Anche perchè, nella disgrazia, forse non manca un refolo di vento che ci spinga. Ora davvero, infatti, there is not alternative al declino: e non c‘è viatico migliore per un contrappasso che riguardi non solo la Thatcher, ma i suoi epigoni ordoliberisti sparsi nel continente.

Difficile negare, infatti, che una politica fiscale anticiclica sarebbe molto più efficace a livello aggregato: per cui, a parità di politiche fiscali espansive, l’Eurozona beneficerebbe di stimoli alla crescita molto più forti. Senza dire che la drastica riduzione dei tassi d’interesse ne renderebbe l’impatto ancora più potente, facendo della politica fiscale uno strumento essenziale per accelerare la ripresa e ridurre la disoccupazione. Ma se non c’è una bussola, il rischio è che le misure alle quali ora si piegano sia la Banca centrale che la Commissione europea restino misure congiunturali: e che venga mancata l’occasione per trasformare la crisi in opportunità, come spesso è avvenuto nel passaggio da un secolo all’altro.