Il Pd ieri, oggi, domani. Tra pulsioni di rinnovamento e cedimenti all’antipolitica grillina. Il Riformista ne discute con Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense. Professoressa di scienze politiche alla prestigiosa Columbia University di New York.

«Il nostro popolo non lo riconquisteremo mai con la pedagogia, l’intervento esterno, i programmi giusti, le parole d’ordine accattivanti ma alla fine inerti. Lo potremo riconquistare attraversando il disagio e il disorientamento delle persone, anche quelle che aderiscono al Partito democratico. Facendole contare, dando loro responsabilità e potere». Così Goffredo Bettini nell’intervista a questo giornale. Cosa ne pensa?
I programmi giusti sono importanti. Quanto alla pedagogia sono d’accordo con Bettini. La si fa nell’azione e non in una scuola. L’unica pedagogia che la politica può mettere in atto è quella della partecipazione diretta. A questo servivano i partiti. Detto questo, tornerei sulle politiche e sui programmi che a me paiono davvero importanti.

Perché?
Se tu non hai un programma di che cosa fare su alcune questioni dirimenti, che sono quelle su cui le nostre democrazie oggi languono, soprattutto in Europa, non vai da nessuna parte. Progetti relativi al mondo del lavoro, alla sicurezza del lavoro, alla sua dignità, alla condizione di una classe media che è sempre più in affanno e che va tenuta in conto. A coloro che sono precari e che non hanno un futuro e che quindi per questo possono essere conquistati da altri populisti o destri. I programmi sono importanti in quanto espressione di alcune idee guida. E queste idee guida sono quelle che in un articolo uscito sull’ultimo numero di Italianieuropei, chiamavo campo ideologico della sinistra. Che per me ha delle coordinate ben precise e che sono poi quelle classiche…

Vale a dire?
Giustizia sociale e libertà politica. Queste due coordinate non possono essere trasgredite. Noi non siamo liberaldemocratici e basta. Questo lo può essere un centrodestra. Del resto, siamo tutti liberaldemocratici alla base, perché i diritti fondamentali, la limitazione del potere delle maggioranze, le accettiamo. Siamo in una democrazia costituzionale e in questo senso siamo tutti liberaldemocratici. Ma non può essere, almeno per me, la politica della sinistra una semplice riproposizione liberaldemocratica. A questo ci pensa Berlusconi, forse Renzi. Per la sinistra non può essere sufficiente. Io penso che abbia un senso politico profondo e di grande attualità riandare alle origini del pensiero socialdemocratico, quello delineato nel 1950 da T.H. Marshall nel suo libro Social Citizenship (Cittadinanza e classe sociale). Le condizioni sociali della cittadinanza: questo è il progetto.

A proposito di riformismi e riformisti. Bettini, nell’intervista, afferma: «C’è riformismo e riformismo. Il nostro riformismo progressista radicato nella storia consiste nell’accorciare le distanze tra chi sta sotto e chi sta sopra».
Per me non ci devono essere il “sotto” e il “sopra”. Se c’è, è perché c’è nella realtà. La democrazia è sempre con due gambe: una nei principi, una nella realtà. La realtà è quella che è e la conosciamo. Ma appunto per questo, vogliamo correggerla. Tutti i progressisti hanno l’ambizione di correggere il dato e non soccombere ad esso. Certo che c’è il “sotto” e il “sopra” ma noi vogliamo che sia sempre più un “accanto”, invece che un “sotto” e “sopra”. Altrimenti accettiamo l’oligarchia. Io non me la sento proprio di arrivare fino a questo punto. Il nostro problema è proprio questo: la debolezza delle nostre democrazie deriva dal fatto che troppi sono coloro che percepiscono le loro libertà politiche, le loro uguaglianze per legge, una formalità. Inutili orpelli. E questo è un problema serio.

In un articolo su questo giornale, interloquendo con quanto sostenuto da Bettini nell’intervista, Michele Prospero ha argomentato il suo dissenso di fondo sull’alleanza strategica del Pd con i 5 Stelle anche nella loro versione “contiana”. Rimarca Prospero: «L’esaltazione nostalgica dell’avvocato del popolo come risorsa della coalizione, e la ossessione per la alleanza strategica con i grillini come momento prioritario dell’agire, evitano una analisi rigorosa dell’effettiva natura del M5S». Qual è la sua di analisi dei 5Stelle?
Vorrei cominciare con una battuta. L’espressione “avvocato del popolo” viene da Solone. Sono le costituzioni di Aristotele. Si dice così, che poi sarebbe il tribuno del popolo, che risponde ai bisogni di quella parte inespressa. Conte non ha inventato nulla. Quanto alla questione del rapporto con i 5Stelle. Parliamo di legge elettorale a questo punto, perché non c’è altra via di uscita. Se tu assumi una proporzionale, puoi permetterti il lusso di andare da solo alle elezioni. Poi ci si conta e con quelle parti che hanno vinto, nell’ala destra o nell’ala sinistra, è possibile cucire qualcosa, un’alleanza di governo, come sempre è avvenuto. In questo scenario, proporzionale, Partito democratico e M5S sono assolutamente competitivi e autonomi, e combattono per avere più voti che possono, l’uno contro l’altro e non insieme all’altro. Ma se scegliamo, come Enrico Letta mi sembra che voglia, una linea maggioritaria, questo non è più possibile. Non siamo cretini, sappiamo leggere i numeri. Col 20% tu non fai un sistema maggioritario per vincere, per perdere lo fai. Se tu scegli il maggioritario, ti poni il problema di andare alle elezioni, non dopo ma prima, con una compagine che possa conquistare la maggioranza. Da solo non puoi andarci. Questa è la realtà, non è che noi inventiamo le cose, sono i numeri, è un principio di realtà che va accettato. Coloro che non amano alcuna pre-organizzata alleanza scelgono un sistema proporzionale, coerentemente. Se invece non lo scelgono, sono incoerenti e illogici. Ma se non vogliono avere alcuna alleanza precostituita, devono scegliere per forza il proporzionale. Se non lo fanno e scelgono l’altro, devono necessariamente organizzare un’alleanza. Bisogna decidere: vogliamo fare l’alleanza con Salvini? Con Berlusconi o addirittura con la Meloni? Personalmente penso proprio di no.

Per Bettini il Pd, anche rinnovato, non è sufficiente a coprire il campo della sinistra, rimanendone però il perno fondamentale. Si possono conciliare le due cose: rinnovare un partito e allargare un campo?
Il campo è diverso da chi lo occupa. Il campo è un “campo” di idee, di progetti, oppure di non possumus, di paletti che lo circoscrivono. Poi chi ci abita in questo campo, chi lo occupa, può essere un soggetto unico, il grosso partito della sinistra, il 34% al vecchio Pci, facciamolo, se ci riusciamo. Oppure lavoriamo per dar vita a un campo all’interno del quale vivano limitrofi, non nello stesso luogo, ma accanto, attori collettivi diversi. Che parlano a parti diverse del pubblico, alcune ad una società, come quella del meridione, disorganica, dove non c’è densità di attività e organizzazioni sindacali, cooperative, sociali, come invece la nostra, e quindi che è capace di avvicinare quel popolo così disgregato col proprio messaggio. Questo hanno fatto i 5Stelle: il partito del Sud. E poi c’è un’altra parte di quel campo che è coperta dal Pd e anche da altri gruppi che possono stare accanto, e che hanno un principio comune. È importante sapere che questo campo ha delle coordinate che lo distinguono dalla destra. Che sono: la giustizia sociale, la dignità della persona e quindi del lavoratore, che è una persona, il problema delle tecniche per far questo, su cui si può anche dissentire. Sui principi il campo è fatto, sulle strategie ancora no. Alcuni vogliono la tassazione progressiva, altri vogliono semplicemente una patrimoniale una tantum, altri ancora né l’uno né l’altro. Su questo c’è da discutere. Per questo il campo non è una voce sola. I principi possono essere comuni, ma cosa fare per attuarli, le strategie possono essere diverse. Ecco perché, a meno che non ci sia un unico partito occupante l’intero campo, necessariamente ci saranno degli alleati.

In tutto questo, l’operazione Draghi come s’innesta? È un “nuovo inizio”?
No, è una parentesi. Io ho scritto sul Domani un articolo, insieme a Carlo Invernizzi Accetti, sui modelli di uscita dal Covid e dal populismo. Perché hanno fanno anche strade insieme, Covid e populismi, in America e altrove. E ci sono almeno due grossi modelli: quello tecno-populista europeo e quello socialdemocratico americano. Dopo aver sputato sopra la sinistra, gli Stati Uniti sono il paese che ha un governo che esprime se stesso come un governo socialdemocratico. Qui siamo in Europa, e purtroppo dagli anni ’90, cioè dalla costruzione dell’Unione europea, abbiamo respirato a pieni polmoni tecnoburocracy. Per cui per noi in Europa molte soluzioni sono demandate a tecnici, a “oggettivi” costruttori di piani che poi stabiliscono i criteri di valutazione, di monitoraggio…Questo noi lo chiamiamo tecnopopulismo. Perché abbiamo un popolo unitariamente inglobato – tutti sono dentro, non ci sono divisioni maggioranza-opposizione – tenuto insieme non da un leader fanatico populista ma da una tecnologia di operatività. Questo è Draghi, questo è Macron. Questa è l’Europa che conosciamo. Rispetto a questa situazione, c’è una ipo-politica e c’è una iper tecnica. E questo credo che non possa essere la nostra speranza. Perché altrimenti i partiti servono esclusivamente a racimolare consenso per un governo che loro non dettano. Delegano a qualcuno, i tecnici non politici, quello che loro dovrebbero fare direttamente. Credo che l’attuale sia un governo che, nel migliore dei casi, è una parentesi, dentro una fase emergenziale, e nel peggiore è meglio lasciar stare, perché io di tecnopopulismo non ne vorrei sapere. E il Pd deve anche distaccarsi un po’ da questo governo, che peraltro qualche volta fa pure delle stupidaggini, perché anche i tecnici sono capaci di combinarle grosse. Il Pd non può essere schiacciato su questo governo, perché non è solo il “suo” governo e non è il suo progetto di governo. È qui per un momento di solidarietà nazionale, se si vuole, di necessità unitaria, per un periodo limitato e uno scopo specifico, che è quello di abbattere la disgrazia del Covid e cominciare ad aprire. Dopo di che bisogna pensare al futuro. E per questo, il Pd deve essere più partito che mai, e non meno partito possibile.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.