Il Partito democratico è sotto assedio. Non per mano degli avversari, come sarebbe logico attendersi nell’ambito di una normale dialettica democratica. Ad attaccarlo, infatti, sono i suoi stessi alfieri: il presidente campano Vincenzo De Luca e il suo omologo pugliese Michele Emiliano “dai lati” e, come se non bastasse, il segretario nazionale Enrico Letta “dall’alto”. Basterebbe questo paradosso a delineare i tratti di una formazione incapace di ampliare la propria base di consenso e perciò costretta ad aggrapparsi all’alleanza con il Movimento Cinque Stelle nel disperato tentativo di conquistare o di rimanere al governo del Paese o delle comunità locali.
Le parole usate da De Luca alla Festa dell’Unità di Bologna, però, impongono una riflessione ulteriore. Già, perché lo Sceriffo non si è limitato dettare ai dem una nuova agenda politica basata su sicurezza, lavoro e lotta alla burocrazia. Il presidente campano si è impegnato a “smontare” pezzo per pezzo l’impalcatura che i vertici del Pd avevano faticosamente montato nel corso degli ultimi mesi. Le Agorà democratiche? Non interessano ai lavoratori. Il ddl Zan? Così com’è, non va votato. La delocalizzazione delle aziende? Ad avere ragione su questo tema non è il ministro Andrea Orlando, ma il presidente degli industriali Carlo Bonomi che reclama una fiscalità di vantaggio per le imprese. La “ciliegina sulla torta”, infine, è arrivata quando De Luca ha parlato del Pd come di un «partito del nulla» che ha «ereditato il peggio della sinistra storica e della Democrazia cristiana».
Le parole del presidente campano si sommano a quelle di Emiliano, capace di riconoscere al “nemico di sempre” Matteo Salvini il merito di aver «spostato la Lega su posizioni completamente diverse» rispetto a quelle xenofobe, omofobe ed antieuropeiste delle origini». Una presa di posizione che, oltre a creare comprensibili imbarazzi, ha evidenziato un’ulteriore contraddizione all’interno del Pd, diviso tra chi (come Emiliano) non si sottrae al dialogo con Salvini e chi (come l’ex ministro Peppe Provenzano) vede come possibili interlocutori leghisti solo figure come il ministro Giancarlo Giorgetti e il presidente veneto Luca Zaia.
E poi c’è il caso di Enrico Letta, pronto a candidarsi alle suppletive per la Camera nel collegio uninominale di Siena senza il simbolo del partito di cui è segretario. Una scelta dettata dalla necessità di allargare il recinto dei consensi a sinistra e al centro o forse da quella di far dimenticare i turbolenti rapporti tra la banca Mps e il Pd? Chissà. Certo è che l’esito è paradossale: ciascun esponente dem sostiene un’identità politica spesso alternativa se non diametralmente opposta a quella del compagno di partito, con il solo risultato di alimentare divisioni e polemiche. In altri termini, le critiche all’identità del Pd si sprecano sebbene sia proprio la mancanza di un’identità definita all’origine della crisi strisciante che impedisce al partito di schiodarsi dal 19% dei consensi attingendo al bacino di voti in uscita dal M5S e Lega.
Ma il caos all’interno di un partito allo sbando ha anche un’ulteriore conseguenza: quella di spingere il Pd a cercare sempre più spesso la propria identità nel “patto di sangue” con i populisti pentastellati. Il che significa dire addio all’idea di una forza a vocazione maggioritaria, garantista e riformista della quale tanto l’Italia quanto Napoli avrebbe bisogno.
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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.