Si avrebbe voluto farsi calare da dosso almeno l’ira e l’indignazione per i più clamorosi casi di tragedie in cui sono stati buttati lavoratrici e lavoratori, ma alle tragedie sul lavoro non c’è fine purtroppo. Esse ormai sembrano far parte terribilmente del panorama sociale del lavoro di questo tempo e di questo capitalismo, guai però ad arrenderci. Non di fatalità si tratta, né di incidenti, ma di crimini intollerabili che potremmo cominciare a chiamare crimini contro l’umanità. Il 3 maggio scorso, una donna di ventidue anni, Luana D’Orazio, assunta come apprendista in una fabbrica di Prato, terra di un’antica storia industriale operaia, viene mandata a trovare una morte orribile negli ingranaggi di un orditoio privi degli apparati protettivi.

Il 18 giugno, Adil Belakhdim, il sindacalista del Si Cobas è stato ucciso da un tir uscito dal deposito Lidl di Biandrate, intento a portare la merce fuori dal magazzino forzando il picchetto dei lavoratori, come in certi drammatici conflitti americani. Qualche settimana prima, a Cavazzano, una squadraccia aggredisce il picchetto dei lavoratori e uno di questi finisce in ospedale in codice rosso. Un’altra storia di violenza antioperaia come nelle tante vicende di conflitto negli Usa dei periodi più duri. Da noi, è una storia intera che viene ricacciata indietro di un secolo e più. Non c’è modo di riprendere quella che eravamo abituati a considerare la normalità del lavoro e del conflitto di lavoro in Italia. Il 25 giugno, Camara Fontamadi, una giovane di 27 anni del Mali, muore di fatica e di caldo, sotto 42 gradi di temperatura, in un lavoro infernale: zappare la terra per sei euro all’ora. Un lavoro da schiavi.

Perché questi morti? Ce lo ha detto un compagno di Adil Belakhdim. La citazione è un po’ lunga, ma vale la pena di leggerla e tenersela a mente: “Adesso te lo dico io per cosa è morto. È morto perché pensava che non si può vivere così per 850 euro al mese, senza tutele, senza vita privata, perché i turni vengono sempre spostati all’ultimo momento, le ferie non le decidi tu, ma il capoarea. Se chiedi un permesso per andare a prendere tuo figlio a scuola, ti lasciano a casa per una settimana in punizione e il lavoro dura sempre 13 ore invece che 8, con gli straordinari sempre dimezzati, e anche di notte ti arrivano sul telefono i messaggi con l’ordine di essere in magazzino all’alba. È morto perché credeva che fosse giusto stare davanti a quei cancelli”.

E questo è un uomo, ma lo sono pure le altre vittime. Il mondo della politica e quello dei benpensanti, passata l’emozione del momento se lo scordano, perché altrimenti bisognerebbe risalire alle cause che le genera e fondarle sull’analisi critica del lavoro di quest’ultimo capitalismo, quello del nostro tempo, un mondo del lavoro che sembra ricacciato giù fin nell’Ottocento. Cos’è diventato questo mondo così complesso, variegato, differenziato? Quanto profonda è stata la sua desoggettivizzazione? Cosa accade quotidianamente al suo interno? Quali e dove sono i fili d’erba della rinascita del conflitto di questi invisibili? Non mancano nel campo del pensiero critico gli spunti, le ricerche penetranti sulla nuova condizione del lavoro, seppure spesso isolate.

Basti pensare, solo per fare qualche esempio, ai lavori di Bellofiore e di Garibaldo sulla centralizzazione senza concentrazione, o a quelli di Sergio Bologna sulla logistica, che se ascoltati fin dal loro inizio ci avrebbero reso meno impreparati ai conflitti di oggi o a quelli recenti di Aldo Bonomi sulla neo-industrializzazione. Mancano, ancora, purtroppo i luoghi del confronto della partecipazione, della socializzazione. La politica invece guarda altrove, conquistata dalle tesi in comune sia al neoliberismo che all’ordoliberalismo, piuttosto che a qualsiasi ipotesi di società generata o generabile nella e dalla ristrutturazione capitalistica in corso, sotto il tallone dell’egemonia dell’impresa e del mercato. In questa cultura politica, oggi non solo prevalente, ma pressoché generale, in tutti gli ambienti governativi europei e nelle istituzioni statuali, il lavoro è una semplice variabile dipendente. Così come lo sgocciolamento proponeva la tesi che, incentivando la formazione della ricchezza, questa sarebbe scivolata già almeno in qualche parte, fino a raggiungere le povertà, così la tesi della ripresa economica, presentata come interesse generale da parte delle classi dirigenti, propone che essa ricadrà in termini di crescita dell’occupazione e di un maggiore riconoscimento del lavoro. Falsa questa come quella.

La prima è già stata falsificata dalla realtà, al punto che l’amministrazione Biden l’ha denunciata pubblicamente. La seconda, invece, gode del consenso dell’intera classe dirigente e politica del nostro Paese, con i conseguenti danni già annunciati dalla realtà in atto e con la totale negazione di qualsiasi autonomia del lavoro, delle lavoratrici e dei lavoratori, della classe operaia così com’è concretamente nella sua nuova composizione. La ripresa è iniziata, ma senza che essa dia luogo a significativi incrementi degli occupati, anzi la disoccupazione è salita al 10,6% e sono 2 milioni e mezzo le persone in cerca di lavoro, più che nel secondo trimestre del 2019. Il tasso di occupazione è sceso ancora al 56,6 %. Nel primo trimestre del 2021 sono venuti meno 250mila occupati, di cui la gran parte “stabili”. Negli autonomi, la perdita rispetto all’anno precedente è ancora superiore.

La Banca d’Italia continua a dare previsioni di un Pil in crescita, ma è forte anche la previsione di una ripresa senza occupazione per un insieme di fattori, tra i quali la stessa innovazione tecnologica. La stessa discussione sul blocco dei licenziamenti ha tradito la preoccupazione sulla dinamica occupazionale, la soluzione di compromesso trovata, cattivo compromesso, apre al rischio dei licenziamenti proprio nelle aree forti, e comunque si colloca dentro l’idea del lavoro come variabile dipendente, con un ulteriore arretramento nella civiltà del lavoro. E se è così, allora non ci può stupire che si arrivi fino alla schiavitù, passando per il lavoro nero, i bassi salari, il supersfruttamento, la totale dipendenza da parte del lavoratore negli orari come nelle condizioni del lavoro dalle esigenze dell’impresa, e cioè dalla massimizzazione del profitto. E c’è persino l’imprenditore che dice che non si trovano i lavoratori. Ça va sans dire, non si trovano in queste condizioni date.

Non un sindacalista combattivo, ma il presidente degli Usa ha detto loro: “Pagateli di più”. Giusto, pagateli tutte e tutti di più. Anzi, sarebbe necessario tradurlo nell’apertura di un grande conflitto sociale e politico sulla distribuzione del reddito, sulla valorizzazione del salario in tutte le sue varianti. Giusto, ma non basta. L’obiettivo dovrebbe essere in realtà il rovesciamento di quel rovesciamento del conflitto di classe di cui ci ha parlato Gallino e che dura ormai da un intero ciclo sociale e politico. Bisognerebbe cioè rimettere il conflitto di classe sui propri piedi. In realtà, dovrebbe essere il programma minimo.

(Fine prima parte)

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Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.