Nei giorni scorsi sono accaduti alcuni fatti importanti nella vita della nazione: l’Assemblea della Confindustria; l’intervento del presidente Mario Draghi in quell’occasione; la “tre giorni” (con un titolo da Odissea 2000) della Cgil a Bologna; l’uscita in libreria e le presentazioni del libro autobiografico di Romano Prodi (Strana vita, la mia). Tutti abbiamo potuto vedere l’accoglienza da standing ovation che oltre mille delegati della più importante associazione di imprese hanno riservato a Mario Draghi. Qualcuno ha paragonato questo evento al “colpo di teatro” di Silvio Berlusconi – zoppicante per una lombo sciatalgia – a Vicenza nel 2006. Ma non c’è confronto.

Il Cavaliere che si apprestava a essere sconfitto (come avvenne) dall’Unione di Prodi, seppe parlare al cuore degli imprenditori che stavano seduti nelle file di mezzo e in fondo alla sala, nonostante la palese ostilità delle prime file che non gradirono il venire allo scoperto di una “base” ancora affezionata a Silvio, nonostante che fosse già nel mirino della procura meneghina per le sue “feste eleganti”. A Roma, pochi giorni fa, l’entusiasmo aveva travolto l’intera platea prima ancora che Draghi potesse dire “buona giornata”. Nei rapporti più recenti Carlo Bonomi non aveva usato alcuna diplomazia nei confronti dei precedenti esecutivi. Da presidente di Assolombarda, già in odore di trasferirsi a viale della Astronomia, svolgendo la sua relazione, alla presenza di Giuseppe Conte già approdato alla guida del governo giallorosso gli rivolse una critica molto netta e negato ogni apertura di credito: «Signor Presidente – affermò Bonomi – vogliamo essere con lei del tutto chiari. Noi apprezziamo i nuovi propositi. Ma non dimentichiamo quello che abbiamo visto e sentito nei 14 mesi precedenti. Non possiamo dimenticare che quel governo ci ha promesso di cancellare la povertà, invece ci ha restituito alla stagnazione».

Di nuovo al teatrino degli “Stati generali” Bonomi si era presentato depositando un libro contenente tutte le proposte della sua Associazione. Con Draghi, la Confindustria si è sentita di nuovo ascoltata, dopo anni che non veniva neppure convocata ai confronti tra governo e sindacati, come se i problemi del lavoro e delle pensioni non la riguardassero. Poi c’è stato lo shock del colpo di mano tentato da Andrea Orlando sui licenziamenti. La Confindustria ha alzato la voce ed è stata ascoltata. Così è accaduto anche con il green pass. Alla fine anche Maurizio Landini e gli ascari delle altre organizzazioni hanno dovuto prendere atto che la proposta di viale dell’Astronomia non era la conseguenza di un colpo di calore del suo presidente. Poi è arrivato il giorno dell’apoteosi. Come sempre, intervenendo nell’Assemblea, il premier ha fatto un discorso essenziale, franco e senza toni trionfalistici. La crescita c’è – ha affermato – ed è maggiore delle previsioni, ma dipende anche dal “rimbalzo”. È compito del governo e delle parti sociali consolidare questo processo virtuoso e metterlo «al riparo dai rischi congiunturali che si nascondono dietro questo momento positivo»: la ripartenza del contagio, la difficoltà degli approvvigionamenti di materie prime, le prime tensioni inflative.

Soprattutto, nel discorso, Draghi si è riferito più volte alla tenuta e alla qualità delle relazioni industriali fino a raccogliere la proposta del presidente Bonomi, pur ridimensionandone la solennità: non si usa la parola “patto”; ci si accontenta di “una prospettiva economica condivisa”. Hanno colto tutti di sorpresa alcuni brani non previsti nel testo distribuito, anche alle agenzie, ma pronunciato a braccio dal presidente (i suoi collaboratori raccontano che l’ispirazione gli sia venuta dal film proiettato in apertura dove veniva rievocato il “miracolo economico”). «Le buone relazioni industriali sono il pilastro di questa unità produttiva. Questa frase viene da un’apparente somiglianza tra la situazione di oggi e la situazione del dopoguerra, come ricordava il Presidente Bonomi prima e il filmato – bellissimo fra l’altro – d’introduzione. C’è stata una catastrofe come allora, c’è una forte ripresa come allora, con dei tassi che credo abbiamo visto soltanto in quegli anni; i tassi di crescita di oggi li abbiamo visti forse negli anni 60, sicuramente negli anni 50. Quindi mi è venuto spontaneamente di chiedermi: come mai si sono interrotti questi tassi di crescita? Come mai – come mi disse un amico di un altro Paese, all’epoca, nel ‘71, ‘70 – il giocattolo si è rotto? Beh, evidentemente le mutazioni del quadro internazionale, l’abbandono del sistema di Bretton Woods, il prezzo del petrolio, due guerre, la fine della guerra in Vietnam, la grande inflazione, sono tutte cose che hanno cambiato il quadro internazionale.

Però in questo quadro internazionale così difficile, alcuni Paesi – ha specificato Draghi -hanno affrontato gli anni 70, che sono stati anni difficilissimi, con successo. E una caratteristica che separa questi paesi dall’Italia, è proprio il sistema di relazioni industriali. In questi Paesi le relazioni industriali, pur stimolate, pur stressate da quello che avveniva intorno, sono state relazioni industriali buone. Da noi, col finire degli anni 60, invece si assiste alla totale distruzione delle relazioni industriali». Ai leader sindacali, in platea, queste parole sono suonate come quelle della canzone: Dio è morto. In effetti con le considerazioni improvvisate Draghi ha riscritto la storia ufficiale delle relazioni industriali, mettendo sotto accusa – come inizio del declino – quegli anni che, secondo i sindacati e i partiti di sinistra, hanno rappresentato – nonostante l’inflazione e il terrorismo – il momento più esaltante per le lotte e le conquiste del movimento operaio. Peraltro Draghi non ha concesso quelle attenuanti che sarebbero state corrette. Perché se è vero che nei posti di lavoro dominava il disordine (un minimo di normalità tornò ad affacciarsi dopo la sconfitta alla Fiat nell’autunno del 1980) è altrettanto vero che fu Gianni Agnelli a concordare il punto unico di contingenza con Luciano Lama. È altresì indubbio che la c.d. piattaforma dell’Eur del 1978 (nel clima di solidarietà nazionale) rappresentò il punto più alto della moderazione sindacale.

A consolare i sindacati, però, è arrivato Romano Prodi con il suo «il riformismo deve trovare una identità nuova dopo 35 anni di un liberismo che ha devastato i diritti sociali». A parte il fatto che, su Il Foglio, Luciano Capone ha puntualmente dimostrato che – se devastazione c’è stata – i responsabili vanno cercati nei governi di centro sinistra, mentre Berlusconi non ha toccato palla e, quando ci ha provato, gli hanno tagliato le unghie. Di questa devastazione non ci siamo accorti, a meno di non considerare diritti inalienabili le baby pensioni, i privilegi del pubblico impiego, i salari gonfiati dall’inflazione a due cifre e talvolta a due decine, gli automatismi retributivi l’assenteismo, il caos della ripetitività nei livelli di contrattazione sulle stesse materie e quant’altro.

Ma la frase di Prodi ci conduce direttamente alla sua partecipazione a “Futura”, la “tre giorni della Cgil”, al chiuso di un vecchio teatro bolognese, alla presenza del padrone di casa Maurizio Landini (sempre pronto a minacciare mobilitazioni salvo dover fare marcia indietro), di Enrico Letta, di Giuseppe Conte e della giovane Elly Schlein, la quale alla fine non ha esitato a tirare le somme: «Non so se ve ne siete accorti , ma oggi, qui, è emerso che tre aree politiche sono in grado di lavorare assieme per un progetto da contrapporre al centrodestra: un fronte progressista ed ecologista che potrà sfidare a testa alta la destra e vincere le elezioni». Con Romano Prodi al Quirinale come garante di un’identità nuova del riformismo?