Enrico Letta sembra aver fatto riprendere al Pd lo stesso cammino che era stato tracciato da Nicola Zingaretti. Ha sventolato la bandiera identitaria dello ius soli e del voto ai minorenni, ha invocato un po’ di femminismo, imponendo ai capigruppo di Camera e Senato di cedere il posto a due donne, ha rassicurato la sinistra del partito, consentendo ad Orlando di mantenere il ruolo sia di vicesegretario e sia di ministro. Ma, soprattutto, ed è la notazione politicamente più rilevante, è ripartito dalla alleanza con i Cinque Stelle, già ritenuta strategica da Zingaretti e Bettini. Sulle cose più importanti nulla di nuovo, dunque. Il cambio di segreteria sembra aver corrisposto solo ad equilibri organizzativi interni.

Se si ricordano tutte le volte che il Pd ha dovuto rinunciare ai propri valori per tenere ferma l’alleanza durante il Conte bis, diventa difficile comprendere le ragioni di una tale fedeltà alla vecchia maggioranza. Basti pensare ai cedimenti sulla riduzione del numero dei parlamentari, ai cedimenti in materia di giustizia, che sono andati addirittura oltre i desideri della parte giustizialista del partito, ai cedimenti di fronte alla palese inadeguatezza del vecchio esecutivo di provvedere alla stesura di piani idonei ad ottenere i fondi del Next Generation Ue (inadeguatezza segnalata, con il suo solito modo felpato, dallo stesso Gentiloni). Senza parlare, poi, delle vecchie e sanguinose ingiurie (ad. es. “il Pd è il partito di Bibbiano”), che avevano scavato solchi profondi nell’animo dei militanti e che i vertici hanno celermente messo da parte. Come può spiegarsi allora questa assoluta fedeltà all’alleanza?

L’intellighenzia che occupa i salotti televisivi oggi alla moda spiega, con il tono saputo di chi ha esperienza e condivide, che la politica è, innanzitutto, matematica. Dunque, per il Pd l’alleanza con i Cinque Stelle è fondamentale perché è l’unica via per poter vincere le elezioni. E quindi essere al potere. In effetti, a ben riflettere, questa appare essere l’unica ragione capace di spiegare perché quello, che ormai da tempo è il partito di sistema, si tenga così abbarbicato al partito antisistema, da essere disponibile a cedere, come si è visto, anche sul piano dei principi e dei valori. Vi è certamente un tentativo di nobilitare la scelta, dicendo, ancora una volta, che la stessa è funzionale ad impedire che vada al potere “questa destra”, con l’implicita affermazione che quest’ultima sarebbe portatrice di tutti i mali del mondo e che, dunque, anche la rinuncia ai valori ed ai principi è una rinuncia sofferta, ma necessaria per salvare il paese.

Emblematica, in questo senso, l’intervista rilasciata da Goffredo Bettini a questo giornale, il quale, riferendosi alla alleanza con i Cinque Stelle, ha dichiarato: «Un’operazione, per certi aspetti, di valore storico: perché la sola capace di ricomporre una prospettiva di alternativa al sovranismo, alla xenofobia, all’intolleranza, alle pulsioni più antiliberali». Ma perché, vi sono mai state destre ritenute legittimate a governare? Chi non ricorda che Berlusconi, oggi vecchio e malandato ma ritenuto affidabile e di sincera fede democratica, sino a qualche anno fa era la personificazione di “questa destra”, che occorreva ostacolare con qualsiasi mezzo, innanzitutto quello giudiziario. Basta avere un po’ di memoria per cogliere una strumentalizzazione che diventa sempre meno convincente e, anzi, fastidiosa per il veleno che getta nella dialettica democratica.

Diventa inevitabile, invece, chiedersi se la perdita sempre più marcata della spinta riformista, che aveva fatto nascere il Partito democratico, non vada letta come l’inevitabile esito di un partito ridotto alla matematica. Abilissimo, perciò, quando si tratta di trafficare nel palazzo e tessere accordi di potere, ma ormai privo di una reale visione della società italiana e del suo futuro. Alcuni errori del gruppo dirigente di quel mondo politico, dalle pessime privatizzazioni degli anni 90’ alla confusa modifica del titolo V della Costituzione (sul rapporto Stato – Regioni), sono costate un prezzo assai rilevante al paese, ma possono trovare spiegazione nella ingenuità e mancanza di esperienza di chi, all’improvviso e senza apprendistato, si è ritrovato alla guida del paese. Ma, oggi, è come se l’ebrezza di quei momenti abbia lasciato una fame inesauribile di governo e di sottogoverno.

E i valori? Una considerazione su tutte. L’utilizzo dei fondi provenienti dal Next Generation Eu avrebbe dovuto e potuto corrispondere ad una vera e propria rifondazione del Sistema Italia, visto non solo nella articolazione del suo sistema produttivo, ma anche nella prospettiva, di stampo autenticamente riformista, di focalizzare la massima attenzione sulla necessità di mettere al centro la dignità del lavoro, in tutte le sue forme. Una sfida epocale, perciò, per chi afferma di coltivare un disegno riformista. Ebbene, le cronache parlamentari riportano tutta un’altra storia: quella del tentativo di Conte di far passare alla chetichella un emendamento volto ad accentrare presso di sé la elaborazione del piano di utilizzo dei fondi e di un Partito Democratico disponibile a subire l’insulto e, soprattutto, a rinunciare ad imprimere la sua visione di futuro su quel piano. Se Renzi non avesse reagito, questa sarebbe stata la storia.

Il ricordo di quei giorni riporta alla mente la pessima circostanza che alla serissima questione politica posta da Renzi, e solo da lui, si è cercato di reagire con un mercato dei parlamentari, che ha segnato uno dei punti più bassi della storia della democrazia italiana. Oggi, del resto, il Partito Democratico non può fare altro che prendere atto di quello che sta facendo Draghi, non avendo alcun precedente contributo specifico, neppure solo di prospettiva, da far valere.
Ed, allora, è auspicabile che Enrico Letta si renda conto che una cosa è la matematica ed altra cosa sono i valori. E non vi è nessuna coincidenza. Una minoranza coerente ed intelligente è capace di imporre i propri valori alla maggioranza, come l’esperienza politica ha spesso insegnato. Una maggioranza eterogenea è, viceversa, la condizione ideale per vedere umiliati, in nome della conservazione del potere, i valori di riferimento. Il Partito Democratico di Letta cosa intende mettere davanti: i valori o la matematica?