Il Primo maggio del Vietnam: dallo scoppio della guerra alla sconfitta degli americani

Esattamente 45 anni fa, il primo maggio, l’America fuggiva da Saigon mentre entravano le truppe comuniste dopo dodici anni di guerra. Gli elicotteri sul terrazzo dell’ambasciata erano presi d’assalto dai funzionari della Repubblica del Sud Vietnam, abbandonata al suo destino. Fuga: gli americani in fuga, sconfitti. Quarantacinque anni fa come oggi l’America fuggiva da Saigon mentre entravano le truppe comuniste dopo dodici anni di guerra. Gli elicotteri sul terrazzo dell’ambasciata erano presi d’assalto dai funzionari della Repubblica del Sud Vietnam, abbandonata al suo destino. Fuga: gli americani in fuga, sconfitti militarmente sul più diabolico e sottovalutato campo di battaglia dopo la Seconda guerra mondiale e l’infausta guerra di Corea.

Nelle foreste e sulle alture del Vietnam si è giocata la politica delle nazioni e la “meglio gioventù” della sinistra europea e americana si scontrava ogni giorno con i governi, la polizia e anche con le forze democratiche filoamericane, specialmente dal 1967 in poi, quando la guerra diventò un massacro e un palcoscenico di doppiogiochismi, tradimenti e bassezze. Mia figlia Sabina aveva tre anni, poi quattro e cinque e mi chiedeva: «Andiamo a giù le mani dal Vietnam?». E andavamo. A Roma come a Milano a Parigi e New York e a Ottawa (molti adolescenti americani si rifugiarono in Canada e furono incriminati). L’America protestava con le canzoni di Joan Baez e Bob Dylan, We shall overcome one day, from the deep of my heart.

E ci sentivamo, noi antiamericani di allora, molto americani perché quella guerra, fino al magnifico film Il grande Lebowski dei fratelli Cohen, fu anche una guerra civile americana con i giovani di leva (leva reintrodotta da Lindon Johnson, successore di Kennedy che quella guerra aveva cominciato mandando i primi berretti verdi), che scappavano e le famiglie potenti che pagavano l’esenzione dei figli cercando di mandare i ragazzi neri a fare la loro guerra. Gli americani alla fine persero meno di ottantamila uomini, oggi il Covid ha battuto quelle cifre, ma il Nord e il Sud Vietnam persero nel complesso più di tre milioni di uomini e donne. A chiuderla, la guerra, fu il cattivo Richard Nixon del Watergate, detto Tricky Dixie, il furbastro, ma che fu nella disgrazia uno dei più grandi e realistici presidenti e che più tardi, lo scoprii a New York negli anni Novanta, andava a tenere lezioni private segrete al giovane Bill Clinton, di cui detestava la moglie Hillary che considerava una strega.

Ma questo fu uno dei tanti paradossi: John Fitzgerald Kennedy e la sua corte detta Camelot come quella di Re Artù, l’elegante democratico cattolico, speranza delle sinistre mondiali, autorizzò la fallita invasione della Baia dei Porci cubana preparata sotto Eisenhower, che fu un vergognoso disastro; portò il mondo sull’orlo della guerra atomica con la crisi dei missili sovietici a Cuba (fece bene, vinse, ma giocò alla roulette le vite di tutti, noi compresi) e iniziò la guerra del Vietnam, in sordina, piccoli aiuti, qualche istruttore, dei mercenari senza distintivo, i berretti verdi alla John Wayne (che fece un film, ma che era riformato e non vestì mai l’uniforme).

Bisognerà aspettare l’arrivo di Marlon Brando in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola – uno che si era filmato la Seconda guerra mondiale in prima linea con la camera a spalle – anche se prima c’era stato un film supremo per sincerità: Il Cacciatore di un altro italo americano, Michael Cimino con Robert De Niro e John Cazale.  Io stesso – il lettore mi scuserà se per praticità uso me stesso come metro di misura, ma è l’unico di cui dispongo – non ebbi dubbi sulla assoluta malvagità americana nella guerra del Vietnam, finché non conobbi l’America e la sua natura interna, proletaria, campagnola, patriottica, legatissima a modi di fare e di essere che noi europei non conosciamo, anche perché quando andiamo in America di solito ci fermiamo a Manhattan.

Scoprii quest’America dei red neck, la gente di campagna e dei blue collar, i nostri Cipputi, ed erano tutti reduci. Veterani. In America si onorano i veterani di tutte le guerre e sono sempre più giovani, ecco un panorama poco italiano, per fortuna. Poi, sperimentai una reazione emotiva quando visitai, più d’una volta. Il Vietnam Veteran Memorial, costruito nel 1982, da una architetta asiatica, Maya Lin. È una trincea fatta di curve tortuose, le cui pareti sono coperte di un marmo scuro e lucido, con incisi tutti i nomi dei soldati caduti nel ‘Nam. E fui impressionato dall’enorme numero di nomi italiani, tutti nomi del Sud, accentati sulla finale, o che finiscono per “o” e “u”. La stessa sensazione che provai vedendo l’elenco dei giganteschi eroici vigili del fuoco che morirono l’11 Settembre dopo l’attacco alle Twin Towers, molti di quei giganteschi statunitensi erano paesani discendenti di nonni curti e niri.

Torniamo a quella guerra terribile e moderna, da cui vennero le droghe, l’uso pacifista di indossare mimetiche militari, l’uso di massa di marijuana ed eroina (le fumerie d’oppio di Saigon che ha ricordato anche Bernardo Valli che combatté la prima di quelle guerre in uniforme francese), lo sfondamento del turpiloquio sessuale come arredo accettato del comune parlare, ad imitazione dell’intraducibile fuck e fucking del soldato americano che si sente screwed up, fottuto dai Charlies, come chiamavano i Vietcong , dalle iniziali “V” e “C”, Viktor Charlie. Fu la guerra che persero gli americani e che certamente vinsero i russi e i cinesi, ma più che altro i vietnamiti che poi dovettero vedersela in armi proprio con i cinesi e che oggi vanno d’amore e d’accordo con gli antichi nemici americani che stravedono per loro e viceversa.

Il consiglio che mi permetto di dare a tutti è di guardare, se non l’avete fatto, lo splendido documentario in sei o sette ore di cinema, su Netflix, o anche quelli della Bbc. Lì si capisce tutto. Ho Chi-Minh. il leggendario Ho Chi Minh dalla lunga barbetta, da giovane faceva il cameriere a New York, adorava Lincoln e giurava che gli americani avrebbero aiutato l’Indocina francese a liberarsi dal giogo colonialista. E questa era l’intenzione di Roosevelt, che fece sputare l’India e l’intero British Empire a Winston Churchill in cambio della liberazione dalla morsa tedesca. I giapponesi avevano spazzato via le potenze coloniali francese, inglese, olandese dall’Oriente, ma con la sconfitta del Giappone i colonialisti erano tornati e l’Indocina francese -Vietnam, Laos e Cambogia – era di nuovo sotto la mano di Parigi.

La cantante esistenzialista francese Juliette Gréco, amica di Jean Paul Sartre, di Brassens e di Brel, cantava le pene d’amore della Pétite tonquinoise. Il movimento indipendentista e comunista vietnamita era guidato da rivoluzionari tutti di cultura francese passati per l’università della Sorbonne, il Partito comunista francese, e dunque attraverso la Rivoluzione francese. Ma la Francia sottovalutò, come poi fecero testardamente gli americani, la potenza militare convenzionale e corazzata dell’esercito vietnamita. A Diem Bien Phu, il 13 marzo del 1954, l’Armée Francaise schierò la sua migliore artiglieria, le migliori truppe e la fanteria, accusata di ridicola esagerazione per combattere un pugno di sporchi ribelli comunisti.

Ma gli sporchi ribelli comunisti erano prima di tutto dei patrioti nazionalisti, avevano chiamato alle armi anche le donne, trasportavano a spalla per le foreste e le colline i pezzi d’artiglieria come formiche e inflissero all’esercito francese una umiliazione militare bruciante e definitiva. L’esercito guidato dal “Bismark vietnamita” Vo Nguyen Giàp aveva divisioni, cannoni, fanteria, truppe corazzate, ogni ben di dio fornito sia dall’Unione Sovietica che dalla Cina. Questa la situazione che trovarono gli americani, che furono ben felici della rotta francese.

Kennedy, contro il parere del Congresso, cominciò a inviare aiuti, mercenari nelle vesti di consiglieri e truppe, finché (poco dopo la sua morte) fu creato un falso (o ingigantito) incidente navale nelle acque del Tonchino, che fornì il casus belli e in forza del quale l’America si trasferì in Vietnam. “Good morning Vietnam!”, prima di diventare un film scomodo e divertente era una realtà radiofonica mattutina per l’America che prima di salire in elicottero voleva il suo breakfast di uova strapazzate e caffè, ascoltando i risultati delle partite di baseball e basketball. E gli americani, come potete vedere dai documentari, non vollero sentir ragione: seguitarono a combattere una guerra contro i “guerriglieri” Viet Cong, ignorando il gigantesco esercito nordvietnamita di Giap ed Ho Ci Min. Le cui tattiche erano nuovissime: interi tratti di foresta venivano scavati con gallerie enormi riempite di truppe e postazioni d’artiglieria su cui veniva rimessa come un coperchio bonsai, l’intera foresta.

E così, quando gli allegri americani andavano a sorvolare e sbarcare truppe, armati di mitragliatrici elicotteri e chitarre, scoprivano che una voragine si apriva sotto le loro scarpe da cui partiva all’attacco un esercito in grado di annientarli. Quando arrivavano i bombardieri, l’esercito fantasma era già sparito sotto altre gallerie. Fu un lento sanguinoso declino di bordelli e divisioni aerotrasportate, fame e sacrifici umani, incomprensioni e amori perduti, attentati e disperazioni. Richard Nixon, dopo un ultimo costoso impegno in bombardamenti inutili e terrificanti che misero in fiamme le foreste, gettò la spugna e trattò a Parigi un laborioso accordo che fu firmato il 27 gennaio del 1973 ma che avrebbe definito soltanto due anni dopo la forza delle armi.

Gli americani se ne erano andati, lasciando ai Sud Vietnamiti, con grande ipocrisia, una enorme quantità di armamenti privi di pezzi di ricambio e di munizioni sufficienti per un lungo tempo. Saigon cadde il 30 aprile del 1975, la bandiera americana ammainata in fretta e furia dai marines in fuga dal terrazzo dell’ambasciata buttando giù a calci i vietnamiti attaccati alle funi. I comunisti avevano vinto. Ma l’effetto domino non ci fu: il Vietnam difese con le armi la sua indipendenza dalla troppo fraterna Cina e nel giro di una decina d’anni, tutti dimenticarono tutto.