Editoriali
Il Venerdì Santo del Presidente Conte e di Papa Francesco: due immagini che si rimandano
Colpisce la concomitanza, o quasi , del discorso al Paese del Presidente del Consiglio Conte e della Via Crucis nel vuoto della piazza di San Pietro e davanti al Papa Francesco. Colpisce in questi giorni difficili, di preoccupazione e di attesa, in cui disorientati sentiamo il bisogno di punti di riferimento e temiamo che le bussole di prima non funzionino più.
Da un lato, il palazzo del governo con il premier in blazer azzurro, seduto alla scrivania dello studio a spiegare le ultime decisioni per fronteggiare l’epidemia e la trattativa con l’Europa, e a polemizzare aspramente con l’opposizione, chiamandola “per nome e cognome”.
Dall’altro, il Papa Francesco, il bianco delle vesti che contrastava con il nero della notte, insieme alle fiaccole, alle candele e una Croce portata da chi combatte sul fronte del virus, i medici, gli infermieri, i poliziotti e i carabinieri, con le voci di chi è condannato a vivere nelle reclusione del carcere, di chi vi lavora e di aspetta i detenuti a casa. Sono due immagini che si rimandano l’una con l’altra, separate dal Tevere di Roma, e che in modi radicalmente diversi entrano in questo tempo che sconvolge la normalità. Seduti in casa, davanti alla finestra della televisione, abbiamo seguito il Presidente, prima, e il Papa, poi, ed entrambi ci mandavano un messaggio, ciascuno nella sua prospettiva e con le modalità e il respiro delle ritualità che gli competono. E quel messaggio se non era lo stesso, era preso nello stesso cerchio e forse davanti a chi guardava non c’erano solo due luoghi e due cerimonie con i loro officianti, ma la diffrazione di un sentire che riguardava ciascuno, nella contraddizione o nella compresenza delle voci che gli parlano e attraversi le quali parla a se stesso.
Un discorso costruito su un rapporto di familiarità quello di Conte. Chi mai avrebbe potuto dire che un avvocato nato in un angolo delle Puglie, senza il voto di un cittadino, non solo si sarebbe trovato con la più alta responsabilità di governo, ma addirittura sarebbe assurto a punto di riferimento del Paese e a farsi carico di una responsabilità diventata immane, come può essere quella di decidere della vita stessa dei cittadini, della loro quotidianità come del loro dolore.
Non si tratta di dare una valutazione politica, né di stilare giudizi, si tratta solo di riconoscere una condizione eccezionale, non so se una croce, tanto più in quella sera del venerdì che precede la Pasqua, certamente un compito smisurato. Sia pure condiviso, sottoposto ai controlli della democrazia o contestato aspramente dagli oppositori.
E’ quel compito che nel discorso si è tradotto nella parola della persuasione, della determinazione, della decisione che si dà degli obiettivi e non deflette. Parlava con calma “paterna” Giuseppe Conte, chiamato a fare il pastore del gregge contro il lupo di un virus, e la tensione che vi era latente si è manifestata quando ha alzato il tono e contro “le menzogne e le falsità” di.. – e, come in un colpo di scena, ne ha fatto i nomi e i cognomi – e poi con l’asprezza del predicatore che dal pulpito tuona contro i peccatori: “questo governo non lavora col favore delle tenebre, questo governo guarda in faccia gli italiani e parla con chiarezza”. Ha detto così e la voce quasi tremava, come se si fosse aperta una lacerazione, accompagnata anche dalla postura del corpo e dalla durezza dell’indice alzato. Poi è tornato a ricomporsi e a tessere il filo della trattativa, delle difficoltà e della tenacia – anche lì si è avvertito un fremito – con cui perseguire l’obiettivo, e cioè un accordo su strumenti finanziari all’altezza.
La verità di un discorso deve sempre contrattarsi con la retorica, erano in ogni caso le parole di un uomo della politica, nel mezzo di un’emergenza drammatica, che si sentiva colpito dal fuoco di fila degli avversari, faccia a faccia con i concittadini. Ed era una laica cerimonia che l’attualità spostava da qualunque consuetudine e ne ribadiva il significato che in una democrazia è sostanziale: il confronto, la parola che illustra, discute, contesta, le decisioni che nascono dal dialogo e dal confronto, l’azione, i programmi e l’incertezza del risultato.
Nemmeno il tempo di lasciarlo che con la Piazza di San Pietro siderale nella notte si è entrati nella dimensione del silenzio, in cui la parola arrivava dalla preghiera, dai Vangeli, dalle testimonianze del mondo del carcere, sofferenza e partecipazione, dolore e speranza. Si intrecciavano con il rito della Via Crucis, la Croce portata da una stazione all’altra da una pattuglia di umanità persa nello spazio del colonnato. Il Papa sotto la tettoia bianca seguiva, commentava i passaggi e invitava a pregare nell’intimità silente di ciascuno. Un’immagine, il primo piano di lui che, stanco, macerato, appoggia la fronte sulla Croce.
E la Civitas terrena si ritraeva a fronte di quella che officiava il rito della morte in attesa della resurrezione che verrà. Potremmo trovare tutte le differenze e le antinomie fra i due piani, e non è proprio il caso di scomodare Agostino e il De Civitate Dei con la sua visione in cui tutto, di qua e di là, la Storia e l’Eterno, va a comporsi.
Ognuno ha la sua sensibilità e sa dove mettersi. Oggi che sulle certezze prevalgono il timore e il tremore, mi fermo sul bordo di quella compresenza nella sera del Venerdì Santo.
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