Il virus piega gli Stati Uniti, record di contagiati e 3 milioni di disoccupati

Potrebbe sembrare un disaster movie, ma questa volta è tutto vero. Da ieri gli Stati Uniti d’America sono il paese con il più alto numero di contagi da Covid-19 nel mondo. Nel momento in cui scriviamo, quasi 86mila casi per un totale accertato di 1.275 vittime, secondo il database del New York Times: il fatto sconvolgente è che mancano ancora dati ufficiali da parte delle agenzie di governo. Ovviamente questo improvviso primato va preso con le pinze. Intanto, la comunità scientifica non considera del tutto affidabili i dati forniti dal governo cinese.

E poi gli Usa hanno una popolazione molto più ampia rispetto a Spagna e Italia, pertanto la percentuale dei contagi è certamente inferiore rispetto ai due martoriati paesi euromediterranei. All’interno del paese, c’è un’enorme variazione nel tasso di test tra gli stati. Il motivo? I protocolli di test e le procedure di segnalazione sono spesso a discrezione dei singoli medici di base e dei dipartimenti di sanità pubblica a livello di stato, contea o città. Ma soprattutto i kit per i test non sono sufficienti rispetto all’enorme fabbisogno che comincia a prospettarsi. Il primo caso statunitense è stato segnalato fin da gennaio nello Stato di Washington, che si affaccia sul Pacifico e dove ha sede Seattle, la capitale dell’industria tecnologica.

Ma i medici locali hanno iniziato i test per il virus con estremo ritardo – e senza l’approvazione del governo – scoprendone finalmente la diffusione capillare. New York – che è diventata l’epicentro della pandemia – sta aumentando i test, ma i numeri sono del tutto insufficienti: la città è diventata spettrale a causa del progressivo lockdown. La Louisiana, nel sud del Paese, potrebbe sperimentare il tasso di crescita più veloce del mondo a causa delle celebrazioni del martedì grasso a New Orleans.

A ovest, la California, pur avendo il doppio della popolazione di New York, ha somministrato ancora troppo pochi test: ecco perché il numero reale degli infetti è sicuramente molto più alto di quello ufficiale. Secondo il New York Times, attualmente sono circa 65mila i test eseguiti ogni giorno sugli americani, ma gli esperti di salute pubblica lanciano un allarme: per garantire l’identificazione e l’isolamento dei pazienti infetti ne servirebbero 150mila. Inoltre è drammatica la carenza dei kit di test e dei dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari. All’Elmhurst Hospital Center nel Queens, a New York, la fila di persone in attesa fuori per un test si forma già alle 6 del mattino, con alcuni che rimangono fino alle 17. E molti vanno a casa senza essere testati.

Nel frattempo, anche se a macchia di leopardo, i vari stati adottando misure di blocco e chiusura delle attività economiche. Le conseguenze sono già salate. La lunga corsa del mercato del lavoro di questi ultimi anni si arena. Le richieste di sussidi alla disoccupazione aumentano: adesso sono più di 3 milioni. Un aumento record,
In questa crisi disastrosa, Donald Trump imperversa con il suo solito stile clownesco. Il presidente è accusato dai media democratici di usare i briefing sul virus per la sua campagna elettorale.

I suoi rapporti sull’avanzamento dell’epidemia appaiono sempre imprecisi. Sulle questioni sanitarie Anthony Fauci, direttore dell’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive, ha ripetutamente dovuto correggere o contestare le affermazioni del presidente. L’ultima boutade di Donald è l’incauta promessa di riaprire le attività economiche per Pasqua: una scadenza che tutti gli scienziati ritengono assolutamente irreale. L’unico colpo davvero riuscito finora è l’avvio del piano di stimolo dell’economia basato sulla cifra enorme di due mila miliardi di dollari, record assoluto nella storia americana.

Eppure, nonostante la conduzione sgangherata della crisi, Trump cresce nei sondaggi. Secondo Gallup, il 49% degli statunitensi (anche una buona parte di democratici) approva le azioni del presidente: è il livello più alto mai raggiunto da tre anni a questa parte. Ma, come spiega Chris Cilliza della Cnn, il motivo è semplice. Nei momenti di grande crisi nazionale – è successo anche a George W. Bush in occasione dell’attentato dell’11 settembre 2001 – si crea un effetto psicologico per il quale il presidente di turno, rappresentante dell’unità nazionale, diventa una sorta di bene rifugio, al di là delle sue qualità e dei suoi meriti.