Ilva di Taranto, 3mila in cassa integrazione: la rabbia dei sindacati

Il giorno in cui l’Ue annuncia il blocco dell’import dell’acciaio russo (in realtà solo della parte già sottoposta a clausole di salvaguardia) il ministro italiano del Lavoro ha convocato il tavolo Ilva con azienda, sindacati e presidenti di regione per firmare la cassa integrazione straordinaria per almeno due anni a tre mila addetti. I sindacati hanno già detto che non firmeranno: “Da tre anni – ha detto il segretario nazionale della Uilm Rocco Palombella– abbiamo oltre 5 mila lavoratori in cassa integrazione solo a Taranto. Tutto questo è costato trecento milioni di euro senza alcun ritorno economico, ambientale e industriale. Soldi pubblici che potevano essere investiti in tutt’altro modo. È questo è il piano di riconversione voluto dal Governo?”.

Il motivo infatti della cassa integrazione che ora diventa strutturale e di lungo periodo è legato alla produzione dimezzata rispetto alla reale capacità produttiva, ma anche, e soprattutto, a una crisi di liquidità. La richiesta è arrivata il giorno dopo l’affossamento dell’articolo del decreto milleproroghe che spostava 575 milioni per il piano ambientale dalla disponibilità dell’amministrazione straordinaria (con i bilanci omissis) a quello dell’azienda che da quando è entrata ArcelorMittal nel 2018 ha già speso oltre un miliardo per il piano ambientale oggi al 90% e in perfetto cronoprogramma per essere terminato ad agosto 2023. Come il Riformista vi aveva anticipato una guerra intestina antidraghiana condotta nei rispettivi partiti dagli ex uomini del Governo Conte bis Francesco Boccia e Mario Turco, volta a vincolare quei fondi alla nomina di Michele Emiliano commissario Ilva, bocciò quell’articolo facendo andare su tutte le furie Mario Draghi. Nel frattempo è saltata anche la ricapitolarizzazione statale con cui Invitalia avrebbe dovuto a maggio versare 680 milioni per aumentare la sua quota societaria, contestualmente al closing della vendita.

Questo perché il tribunale di Taranto tiene ancora sotto sequestro gli impianti dell’area a caldo dello stabilimento in custodia cautelare dal 2012, condizione sospensiva del contratto che ne impedisce l’acquisizione. Addirittura dopo quasi un anno non è ancora stata pubblicata la motivazione della sentenza del processo di primo grado, mentre siamo già a sei provvedimenti di correzione di errore materiale emanato dopo quella sentenza dai giudici, una cosa mai vista prima. In questa situazione anche le banche non fanno prestiti, come potrebbero fare credito a un soggetto di cui lo stesso azionista dimostra di non avere fiducia? Eppure la situazione del mercato dell’acciaio per Ilva non è mai stata cosi favorevole come in questo momento che anzi diventa indispensabile e di necessità. Mentre tutte le fabbriche siderurgiche italiane si stanno fermando non solo per i rincari di energia, ma soprattutto della materia prima rappresentata dai rottami ferrosi o semilavorati, Ilva è rimasta l’unica in Italia ad andare a ciclo integrale cioè a completare il ciclo al proprio interno. Lo stesso Gianfranco Pasini di Feralpi ieri ha detto che una ripresa della produzione dei coils nello stabilimento di Taranto in questo momento metterebbe al sicuro tutta la filiera italiana. E invece il Ministro convoca il tavolo della cassa integrazione.

Molto probabilmente Orlando neanche si presenterà all’incontro, così come ha fatto al momento della firma dei licenziamenti per la Whirlpool di Napoli dopo che fino al mese prima era andato durante la campagna elettorale accanto al sindaco Manfredi a promettere a quegli operai continuità occupazionale. Tocca al Ministro però questa volta concedere la cassa integrazione straordinaria. Farlo vorrà dire stralciare definitivamente l’accordo del 2018 di Luigi Di Maio (di fatto mai rispettato perché gonfiato) e dichiarare 5 mila esuberi strutturali. Che poi sono quelli che dal primo momento l’azienda ha sempre detto di aver concordato con il Governo Conte bis il 4 marzo 2020, ma che Pd e 5stelle che lo firmarono tenendolo segreto hanno sempre negato. Lo stesso con cui quando Conte ha deciso la statalizzazione dell’unica fabbrica a ciclo integrale d’Italia sapeva che da quel momento in poi sarebbe stato il pubblico a doverci mettere i fondi oggi necessari per farla ripartire, dal Ministero dello Sviluppo e non della Cassa Integrazione.