Un certo realismo abolizionista vuole che almeno si cominci con l’evitare il ricorso alla misura carceraria per i reati meno gravi: è comprensibile. Siccome l’abolizione della pena detentiva è pressoché impossibile da ottenere, che almeno si ottenga di risparmiarla a chi ha commesso cose da poco, e di vederla revocata a chi in carcere ha lungamente soggiornato e deve scontare ormai senza nessuna necessità il poco residuo della sanzione.

Ma l’ingiustizia più profonda è commessa dallo Stato nei confronti di chi, come si dice a destra e a manca, “merita” di restare in carcere perché si è reso responsabile di delitti, diciamo così, socialmente qualificati: per capirsi, i delitti mafiosi e di terrorismo, non a caso riguardati dal potere pubblico con analogo atteggiamento giudicante. A motivare questa pretesa punitiva non c’è il desiderio di allontanare dalla società il soggetto pericoloso (ciò che bensì giustifica, anche per l’abolizionista, il carcere): c’è semmai il desiderio di soverchiarne l’anima, il carattere, l’abito culturale, tramite l’afflizione del corpo. Pura inquisizione, dalla quale infatti il condannato si salva a una condizione: tradire il demonio con cui è venuto a patti, pentirsi, collaborare, infine purificarsi nell’affiliazione al bene di Stato. Nel nome del quale, appunto, non si tiene in galera il boss (ma col terrorista il procedimento è pressappoco lo stesso) sul presupposto che possa essere ancora pericoloso, e neppure in ottica semplicemente retributiva (ha fatto tanto male, gli tocca tanta galera): no, lo si restringe perché e finché “non si pente”, e quando lo fa gli si riconoscono benefici altrimenti inusitati perché il pentimento è la dimostrazione esemplare che il bene di Stato ha vinto, riducendo a sé il peccatore.

In nome di questa giustizia è possibile rastrellare centinaia di persone e poi liquidare come “fisiologico” che molte risultino in realtà innocenti: perché esse sono sacrificabili, se si tratta di trovare il maligno da sottomettere al bene di Stato. E in nome di questa giustizia è possibile uccidere di carcere il criminale che a quel bene, non pentendosi, decide di non sottomettersi.

È là dove la giustizia si pretende più giusta che essa si fa più temibile, meno civile: più ingiusta.