Mario Tronti ha smosso le acque all’interno del Partito democratico e nel campo della sinistra. Delle questioni sollevate nella sua intervista di mercoledì scorso a Il Riformista, abbiamo parlato con Cesare Damiano, una storia nel sindacato e nella sinistra. Già ministro del Lavoro e della previdenza sociale nel governo Prodi (il suo nome è legato all’attuazione della riforma del TFR), parlamentare per più legislature, membro della Direzione nazionale del Pd, Damiano è anche presidente dell’Associazione Lavoro&Welfare.
La politica è condannata a rincorrere la quotidianità come dice Tronti?
Questo è il punto dal quale partirei. È giunto il momento di riconquistare la visione, l’orizzonte. Ed è giunto il momento di abbandonare il tatticismo e quello che Mario Tronti definisce “correre dietro il giorno per giorno”. Questo argomento, a mio avviso, ci aiuta a comprendere soprattutto la crisi della sinistra e a comprendere il fatto che nel vuoto che si è creato si sono inseriti il sovranismo e il populismo che hanno cancellato la chiave popolare e comunitaria che dovrebbe essere un tratto dei partiti progressisti. Bisogna riconoscere onestamente che la sinistra a livello mondiale, europeo e nazionale, con la fine del ciclo delle lotte per la conquista dei diritti civili e sociali – che ha caratterizzato il dopoguerra fino alla fine degli anni Settanta – è rimasta subordinata e ipnotizzata da una ideologia che, negando l’esistenza delle ideologie, ha creato la condizione del suo dominio: si chiama, come tutti sappiamo, neoliberismo. Il dio che ha evocato emerge dalle viscere della terra e si chiama “mercato”. Il mercato ha cancellato la persona e i diritti o, per lo meno, ne ha segnato un forte arretramento. Per la mia esperienza politica le due frasi che mi hanno colpito e che hanno in qualche modo incubato il contesto politico sociale ed economico degli ultimi decenni sono queste: la prima appartiene al mio campo, quello della sinistra, e mi riporta al maggio francese, al 1968, non saprei dire chi sia l’autore di quello di slogan, ma la frase è «il est interdit d’interdire», è vietato vietare. In quell’affermazione non c’è solo l’evocazione della spinta antigerarchica che ha caratterizzato la mia generazione, la rottura dei vecchi paradigmi dei legami e dei luoghi comuni, ma c’è anche la negazione dell’esistenza della coppia diritti-doveri, che ha condannato i diritti dopo la fase della loro espansione ad un irrimediabile regresso perché senza l’incorporazione dei doveri, i diritti diventano più fragili. La seconda frase appartiene all’altro campo, la destra, ed è di Margaret Thatcher: «La società non esiste, esiste l’individuo». In questa frase c’è il compendio di una filosofia, quella che ha animato nei decenni successivi agli anni Settanta il cosiddetto turbocapitalismo, che ha fatto della logica della concorrenza ad ogni costo il paradigma a partire dal quale abbiamo distrutto la logica della comunità e della società, scambiata per un improbabile collettivismo. La sinistra, a mio avviso, non ha saputo reagire, si è lanciata in una ricerca di terze vie fallimentari, che gli stessi autori di quell’invenzione, come Tony Blair, hanno riconosciuto come disastrose. La rincorsa verso il centro è diventata lo strumento per governare e non l’esercizio di una sana egemonia gramsciana che si combatte con il pensiero e con le idee e nella quale vince il migliore.
Il campo largo di cui ha parlato anche Letta durante la direzione in vista del 2023
Possiamo vincere se ritroviamo l’anima. Per ritrovare l’anima abbiamo bisogno di ricostruire un orizzonte ideologico, non ho paura di dirlo, intendendo l’ideologia non come un rigido contenitore di dogmi ma come un involucro di valori che si correlano dialetticamente con il contesto sociale, politico ed economico, pronti a contaminarsi ma non ad arrendersi alla moda del momento. Quindi, se il Pd vuole costruire un campo largo, in primo luogo deve porsi il problema di diventare – come dice Enrico Letta – un partito popolare che ritrova il legame con i suoi insediamenti territoriali, con la sua umanità. Purtroppo, ha ragione Mario Tronti, non siamo ancora usciti dalle Ztl e il dato dell’astensione è ancora massicciamente insediato nelle periferie. Per parlare al popolo bisogna mettere al centro temi popolari.
Quali sono i temi popolari?
Sono sicuramente il lavoro, lo Stato sociale, l’economia sociale di mercato, un nuovo paradigma nel quale il ruolo della persona ritrovi la dimensione dell’uguaglianza delle opportunità passa attraverso la rivitalizzazione di un ascensore sociale che da molti anni non funziona più. Bisogna rompere gli argini di una condizione di minorità per conquistare la consapevolezza della possibilità di guidare un processo di modernizzazione del Paese con idee di sinistra. È di sinistra pensare che la stella polare sia il lavoro a tempo indeterminato che deve costare meno del lavoro a tempo o addirittura precario. È di sinistra difendere un sistema di welfare pubblico, contrattuale, privato, che sappia allearsi e correlarsi con l’evoluzione demografica sociale e tecnologica che ci attende da qui alla metà del secolo. Pensioni flessibili, dare la possibilità di una uscita anticipata dal lavoro soprattutto a chi rischia un infortunio, un incidente, una malattia professionale perché svolge un lavoro gravoso; riconoscere il valore del doppio lavoro sociale e culturale delle donne nella professione e nella cura; connettere il lavoro alla formazione e l’istruzione al lavoro abbattendo il muro di divisione che separa il momento della formazione da quello dell’attività: se non ripartiamo da qui sarà difficile riuscire a elaborare un progetto politico in grado di captare le reali esigenze delle persone. Soltanto se avremo dei contenuti potremo costruire un campo largo che non sia semplicemente la sommatoria di sigle eterogenee animate dalla voglia di governo ma che, al contrario, rappresenti una dorsale politica, una linea coerente di progetto e di programma indirizzata verso il bene del Paese. La domanda che mi faccio è questa: la transizione che verrà dettata dal Pnrr è ecologica, digitale, infrastrutturale. Ma sarà anche sociale? Il tasso di diseguaglianza che oggi registriamo, sarà diminuito al termine di questa fase di transizione o sarà rimasto inalterato o addirittura aumentato? È anche in questo passaggio che troviamo le ragioni della sinistra e che riscopriamo i suoi valori.
Molto si discute su Mario Draghi e la sua “agenda” di governo. Tronti dà al Pd e alla sinistra un consiglio spassionato: punta tutto su Draghi e lascia perdere l’Ulivo…
Come ho avuto già modo di dire, ho definito Draghi il grande timoniere. È il grande timoniere perché è l’unica persona in grado di governare questa fase estremamente complessa e quindi mi auguro che porti fino in fondo il suo compito. Sostanzialmente, il primo obiettivo è quello di vaccinare tutti gli italiani e ci siamo quasi; il secondo è governare questa enorme massa di risorse distribuendola per rifare l’architettura del Paese e ci sta lavorando; ma non è detto che il grande timoniere non commetta anche degli errori.
Dove sta sbagliando?
Mi permetto di fare una critica: in primo luogo, l’aspetto sociale a volte risulta opaco e sfumato nell’azione di governo. Avrei voluto più risorse nella legge di Bilancio, soprattutto per le pensioni, e non credo che sia giusto affermare, come fa il presidente del Consiglio, che il ritorno alla normalità per quanto riguarda il sistema pensionistico sia ritornare alla legge Monti-Fornero perché andare in pensione all’età di 67 anni non è per niente normale. Inoltre, uno sforzo di fantasia e di creatività per il futuro, soprattutto per le giovani generazioni che avranno pensioni più basse e corrono il rischio di diventare pensionati poveri a causa di un lavoro povero, discontinuo e malpagato è un tema che dobbiamo porci nell’immediato che impone la rivisitazione flessibile del sistema previdenziale e non solo l’eliminazione di quota 100. Occorre uno sguardo lungo, denso di coraggio se vogliamo davvero dare un senso all’agire politico di uno schieramento progressista ampio e credibile che abbia l’ambizione di guidare l’enorme processo di transizione che abbiamo di fronte a noi, ovviamente con idee di sinistra.
Intanto c’è da registrare lo smacco subito dal Pd e dal centrosinistra al Senato sul ddl Zan.
Il risultato del voto segreto è un brutto colpo non tanto per i proponenti ma per l’Italia. È il segno di un preoccupante arretramento culturale che andrà sicuramente recuperato. Sarebbe stato preferibile non avere il voto segreto in modo tale che ciascuno si sarebbe potuto assumere le proprie responsabilità davanti agli elettori in modo trasparente. È evidente che il voto segreto ha fornito un altro spunto a Italia Viva per dimostrare che con i suoi voti parlamentari sovradimensionati rispetto ai sondaggi elettorali può condizionare non tanto il ddl Zan ma la prossima elezione del Presidente della Repubblica.
