“Israele come Hamas”, scriveva l’altro giorno il quotidiano La Stampa. In che senso? Nel senso, spiegava il giornale torinese, che lo Stato ebraico avrebbe istituito un “centro di comando sotto l’ospedale di Ichilov”. Ora, chiunque dovrebbe capire che quell’equiparazione (“Israele come Hamas”) sarebbe a dir poco discutibile anche se la notizia fosse vera: solo che era pure falsa.
Questo tuttavia non ha impedito a quella testata, e ai canali web e social di cui si vale, di lasciare intendere che Israele si abbandona alla commissione degli stessi crimini in cui è specializzata l’organizzazione terroristica palestinese. La quale fa sistematicamente uso degli ospedali per nasconderci i propri militanti e i propri capi, per tenerci gli ostaggi, per impiantarvi – essa sì – centri di comando, per organizzare attentati e per sparare ai nemici facendosi scudo dei malati e dei medici. Il tutto in favore di un sistema dell’informazione – stiamo al caso più recente – molto solerte nel denunciare l’episodio dell’ospedale colpito da Israele e molto pigro nel far sapere che lì sotto c’era un buontempone chiamato Mohammed Sinwar.
E questo, se ci si pensa, è il profilo più imbarazzante di una pratica giornalistica così combinata (la quale – precisiamolo – non è certo esclusiva di quel prestigioso quotidiano). Perché suggerire, contro il vero, che Israele è “come Hamas” nell’abuso criminale degli ospedali è già abbastanza inappropriato. Ma farlo sulla scorta di un deserto informativo circa l’uso sistematico e documentato che invece ne fanno i tagliagole del 7 ottobre tocca, e diremmo che supera, il limite della vergogna. Basarsi su presunti dati di fatto per scrutinare i livelli morali delle parti in conflitto e per distribuire condanne è un’operazione già autonomamente delicata. Ma è possibile avventurarvisi, sempre con cautela, a due condizioni. La prima: che si tratti di dati di fatto, non di reflui da social. La seconda: che i dati di fatto su cui si pretende di fare informazione siano, possibilmente, tutti, non solo quelli che vengono buoni dopo accurato accantonamento di quelli scomodini.
Se poi l’argomento non riguarda qualche dettaglio di neutra cronaca su un fatterello qualunque, ma la questione che rigonfia venti mesi di dibattito pubblico giustamente angosciato, allora diciamo che l’obbligo di attenersi a quei due minimi criteri (i fatti veri, non quelli inventati; e tutti, non solo quelli che rispondono alla linea) dovrebbe essere tanto più sentito. Ma pare che sia diffuso un senso del dovere informativo, diciamo così, meno soffocante. Forse perché il peggio che succede quando ti prendono in castagna (qui da noi: all’estero è un po’ diverso) è che cancelli il pezzo con quel titolo, fai sparire il post sui social che lo rilanciava e infine – come si dice in greco antico – passata la festa, gabbato lo santo. E infatti così ha deciso di fare La Stampa con “Israele come Hamas”: ha cancellato. Un rigo di scuse? Figurarsi.
