Nei rovesciamenti istituzionali, è storia, per prima cosa va spento il segnale televisivo. Quel che è accaduto ieri a Teheran, per mano degli aerei israeliani, non è casuale: rientra perfettamente nella strategia di Netanyahu: rovesciare il regime teocratico e riportare la democrazia in Iran. La diretta televisiva interrotta dalla tv di Stato, con una conduttrice che fugge mentre lo studio sta per crollarle addosso, fornisce agli spettatori un messaggio chiarissimo. È l’ora di riprendere per mano la strada del futuro per un Paese con una società così giovane e determinata come quella iraniana. Le reazioni della politica italiana – e dei suoi campioni irenisti e rinunciatari – sono improntate allo scetticismo. Giuseppe Conte, in una dichiarazione a telecamere accese, ha detto: «Israele vuole rovesciare il governo iraniano? I regime change non hanno mai funzionato».

Conte ricordi che così è nata la Repubblica

L’ex premier, che ha dedicato la sua carriera accademica al diritto, forse ha dimenticato qualche lezione di storia e geografia. Proviamo a ricordarne qui qualche cenno, sia mai che la questione approdasse sui banchi della Maturità. Partiremmo da noi stessi: cosa avvenne proprio in Italia, nel 1945, se non l’esito di un processo di regime change? Fortemente voluto dagli italiani, certo. Ma con tutti i crismi: l’insurrezione armata, il sostegno delle potenze alleate, il rovesciamento della dittatura e infine l’indizione di libere elezioni sulla forma dello Stato e sul nuovo regime multipartitico sono i punti-cardine della cronotappa in cui viene svolto il cambio di regime. Quattro punti ai quali va aggiunto un quinto: la capacità di sostenere finanziariamente la transizione democratica tramite iniezioni di capitale straniero. Non dovremmo mostrarcene insofferenti proprio noi, che dobbiamo la democrazia e il ripristino dello stato di diritto proprio al combinato disposto tra sconfitta bellica, pressione internazionale e sostegno economico occidentale.

I casi di regime change

Come d’altronde può dirsi per la Germania, pur smembrata in due: a Est e a Ovest si confrontarono in parallelo due regime change di segno opposto. E in Giappone, la sovranità venne restituita in cambio dell’abdicazione dell’imperatore e di una nuova costituzione di stampo liberale. I grandi teorici non avevano immaginato tutte le combinazioni e le disarticolazioni possibili dei loro postulati. Hans Morgenthau, caposcuola del realismo, riconobbe per primo – in quegli anni Quaranta – come l’ingerenza di un paese esterno possa incontrare il favore di una parte importante delle popolazioni sottoposte a dittatura. Concetti sviluppati da Henry Kissinger prima e Michael Walzer poi, fino a Paul Wolfowitz, suggeritore all’orecchio di George Bush nell’Iraq del 2003. Un caso di successo parziale, dove la dittatura di Saddam Hussein è stata vinta, sì, ma per essere soppiantata da una fragile parvenza di democrazia, tempestata di guerriglie tribali. In molti altri casi invece il regime change si è compiuto, e per il meglio. Operarono in supporto all’opposizione portoghese gli alleati europei e americani che realizzarono nel Portogallo di Salazar la “rivoluzione dei garofani” nel 1974.

In Argentina, dove dalla metà degli anni Settanta c’era un direttorio militare al potere, fu la netta sconfitta nella guerra delle Falkland (loro direbbero: Malvinas) a permettere a Uk e Usa nel 1983 il rovesciamento di quella efferata dittatura, ripristinando un’autentica e solida democrazia. Anche in Cile, la transizione verso la democrazia avvenne quando gli Stati Uniti imposero a Pinochet di sottoporsi a un referendum popolare, non negando una mano alle opposizioni democratiche. A Grenada, come poi a Panama, nel 1989, il sostegno informale degli americani ai guerriglieri locali rovesciò invece con le armi le giunte militari, installando sistemi democratici duraturi. Nella polveriera balcanica, fu la guerra che ridusse l’ex Yugoslavia al fratricidio a indurre gli Usa e i paesi Nato, Italia compresa, a intervenire per rovesciare il sanguinario regime di Slobodan Milošević. Operazione compiuta nel 2000. Con venticinque anni di pace, oggi molti degli ex paesi di quella regione possono bussare alle porte della Ue. Ma forse tra i casi meglio riusciti va riportato quello algerino.

Dopo decenni di regime monopartitico sotto il FLN (Front de Libération Nationale), l’Algeria apre al multipartitismo nel 1989. Le elezioni legislative vennero indette nel 1991. Al primo turno, i fondamentalisti islamici del FIS ottengono il 47% volando verso la conquista della maggioranza assoluta. Così, per scongiurare quello che poteva essere “un nuovo Iran”, come si disse all’epoca, intervennero Usa e Francia, appoggiando, a fin di bene, come venne spiegato, l’interruzione delle operazion elettorali. La realpolitik ha la sue regole. Ma quel che è certo è che i regime change hanno segnato la storia degli ultimi ottant’anni con una valenza quasi sempre molto positiva. Per chi ama democrazia e libertà.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.