Israele, è caos per la riforma della giustizia. Ma anche il Presidente Biden invita alla calma

Grande è la confusione sotto il cielo di un paese che più di altri avrebbe bisogno al mondo di una forte compattezza interna: Israele, il Paese alle prese dalla sua nascita con l’esigenza di fronteggiare quotidianamente minacce alla propria sicurezza interna ed esterna, è nel pieno di una crisi istituzionale la cui via d’uscita al momento non si vede.

Tema dello scontro è una riforma della giustizia di cui il governo Netanyahu ha fatto approvare la prima di quattro parti, dopo grandissime resistenze, manifestazioni in tutto il Paese, perfino richiami alla cautela del più grande amico di Israele, quegli Stati Uniti il cui Presidente Biden è intervenuto sabato scorso. Le contestazioni hanno trovato consenso in pezzi importanti della società, dell’economia, della cultura e perfino dell’establishment militare, mentre l’opposizione disertava il voto, definiva il premier una marionetta in mano all’estrema destra sua alleata e dipingeva con oggettiva esagerazione l’approvazione di quella legge come se fosse la fine dell’unica democrazia liberale del Medio Oriente.

La riforma della giustizia proposta va a toccare la nomina ed i poteri di uno degli organi più importanti del Paese, la Corte Suprema. Se la prima parte riduce la discrezionalità della Corte di abrogare leggi ritenute “irragionevoli”, le altre tre parti prevedono la possibilità per il parlamento di annullare le decisioni della Corte a maggioranza qualificata, la modifica del comitato che ne seleziona i nuovi membri e infine l’eliminazione dell’obbligo per i ministri di obbedire ai pareri attualmente obbligatori dei loro consulenti giuridici. Insomma, Netanyahu, e ben più di lui i partiti di destra che sostengono la sua maggioranza e la condizionano pesantemente, hanno in testa una revisione decisa, per molti necessaria ma per molti anche eccessiva, del sistema di “check and balance” finora in vigore in Israele che, giova ricordarlo, non ha una Costituzione ma una serie di “leggi fondamentali”, solo alcune delle quali possono essere modificate con maggioranza qualificata.

La verità è che larga parte della società israeliana, specie quella più laica e cosmopolita, non accetta l’idea che al governo con il partito liberale e conservatore Likud guidato da Bibi, il soprannome storico di Netanyahu, ci siano partiti orientati così radicalmente a destra. La lotta contro questa riforma della giustizia è quindi almeno in parte un modo surrettizio per mettere in crisi la maggioranza, sapendo bene che larga parte della società non avrebbe condiviso che fosse messa in discussione l’autonomia della Corte Suprema, per molti un vero e proprio baluardo dei diritti e delle libertà in quel Paese. E se a farlo poi è una maggioranza così spostata a destra, dalla non condivisione a qualcosa di simile ad una insurrezione popolare il passo è breve. Tant’è che, nei sondaggi pubblicati in questi giorni, se si andasse al voto i rapporti di forza tra opposizione e maggioranza sarebbero letteralmente ribaltati.

C’è però un’altra verità. Lo stato di Israele, la sua democrazia non si può permettere un livello di conflittualità interna così alta, avendo a che fare ogni giorno con nemici che mettono a rischio la sua sicurezza e la sua stessa sopravvivenza: questo era il senso del messaggio recapitato a Netanyahu da Biden, questa è la speranza dei molti che si augurano che Bibi sappia in autunno contenere i propri alleati, trovando punti di mediazione con le opposizioni e riducendo il livello dello scontro. O decida, ad un certo punto, di riportare il paese alle elezioni, cosa ad oggi affatto improbabile.