Italia travolta dal Covid, troppi peana e pochi mea culpa

A un anno dal dilagare dell’infezione, quella rispetto alla quale eravamo “prontissimi” già un paio di mesi prima, è possibile fare un bilancio meno retorico di quelli correnti? La conta dei tanti morti da parte dell’autorità pubblica dovrebbe adempiere a importanti operazioni statistiche e di monitoraggio, e invece è quotidianamente adoperata a pietistica e ipocrita interfaccia con il dolore di amici e parenti superstiti. E così la celebrazione dei meriti istituzionali (“lo Stato c’è” ), buona quando ne ammette le mende e pessima quando, come spesso accade, serve a sottacerle e a mandarle assolte.

A bilancio ci sarebbe da mettere la condizione della democrazia rappresentativa, una cosa infibulata da un’azione di governo che lavorava a inibirne qualsiasi funzione ed era adibita a infertile dépendance di “Chigi”, una platea ammutolita cui il capo del governo faceva la concessione di una visita un paio di volte al mese: e intanto la vita civile ed economica dei cittadini era consegnata al capriccio incensurabile delle sue decretazioni personali, la giungla di comminazioni illustrate nelle conferenze stampa dove la domanda scomoda incontrava la minaccia di querela. Di fronte a questa realtà, celebrare lo “spirito democratico” di cui avrebbe dato prova il Paese durante la pandemia, come ha fatto l’altro giorno il presidente della Repubblica, lascia a dir poco soprappensiero.

Un pizzico di retorica patriottarda è pur concessa nelle ricorrenze, ma il perdonabile eccesso laudatorio diventa pericoloso quando c’è rischio che vada a far toppa su un buco di verità: e la verità è che magari in buona fede, ma senz’altro, i responsabili dell’azione pubblica hanno lasciato andare il Paese verso l’esperienza autoritaria e di involuzione civile più grave da che esiste la Repubblica; così come è vero che il caro popolo italiano non ha mostrato di risentire in modo apprezzabile di quel degrado e anzi ha partecipato quasi festosamente al lockdown delle libertà costituzionali, questi impicci lungo il corso impeccabile del modello prefettizio e commissariale che nelle rappresentazioni governative suscitava le ammirazioni universali.

Nelle cose da mettere a bilancio ci sarebbe poi altro, che non a caso sfugge alla ricapitolazione comunemente snocciolata. I migranti, per esempio, quelli che non puoi lasciare che “vadino” a infettare la brava gente italiana, una bella propaganda discriminatoria legittimata dal contrappunto adesivo dell’impostazione progressista secondo cui tra Covid e immigrazione c’è “una correlazione evidente”. E i detenuti, l’altra materia passiva delle retoriche sicuritarie che facevano tredici morti in un giorno nelle carceri sottoposte all’imperio di Magistratopoli, la strage di cui non valeva la pena di occuparsi perché prima veniva la gente perbene, quella che siccome ha già tanti guai deve almeno star sicura che ai carcerati non siano concessi troppi privilegi, tipo quello di sopravvivere. Sono scampoli di verità neglette, che meriterebbero invece riconoscimento se avessimo davvero a cuore di uscirne migliori.