«Non ci sono vincitori nelle guerre commerciali». Le parole della portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, vanno oltre la sintesi disincantata dell’attuale situazione economica. Domani, a Kuala Lumpur (Malaysia), si apre il vertice Asean, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico. Vi prenderà parte anche il segretario di Stato americano, Marco Rubio, per la prima volta in missione nella regione.

Intanto Pechino ne approfitta per sottolineare che gli accordi che sta facendo Trump sui dazi non chiudono la partita. Al contrario, sono l’inizio di una fase conflittuale nelle relazioni commerciali che la Cina non aveva alcuna intenzione di avviare. L’agenda del ministro degli Esteri, Wang Yi, nella sua due giorni malese, è fitta di incontri bilaterali: Vietnam, Indonesia, Giappone, Corea del Sud. Tutti interlocutori che con Pechino hanno una tradizione di concorrenza per non dire di conflittualità. Ob torto collo però, il mondo asiatico si sta muovendo per difendersi dagli Stati Uniti.

I mercati emergenti – Vietnam e Indonesia – sono alla ricerca di strade alternativa per consolidare la crescita. Quelli in fase calante, Giappone per primo, sono disposti a tutto pur di riprendersi. Spregiudicatezza e pragmatismo sono i pilastri della saggezza mercantile dell’Estremo oriente. A sua volta, la Cina marca il territorio. Sia per contenere l’aggressività del Tycoon, sia perché ha bisogno che gli Usa continuino a essere il suo primo mercato di riferimento. Tutte le armi sono lecite. Le tariffe quanto gli escamotage.

Secondo il dipartimento del commercio, il valore delle esportazioni cinesi verso gli Usa è calato del 43% su base annua a maggio. Tuttavia, le esportazioni complessive cinesi sono cresciute del 4,8% nello stesso periodo. Grazie a un aumento del 15% delle spedizioni proprio verso i Paesi Asean e del 12% verso l’Ue, Pechino colma il vuoto. Ma lo fa anche perché i suoi prodotti, da questi mercati, giungano comunque nei porti americani. Secondo Capital Economics, sempre a maggio scorso, circa 3,4 miliardi di dollari di esportazioni cinesi sono state deviate attraverso il Vietnam, con un aumento del 30% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Si tratta per lo più di componenti elettronici: circuiti stampati, parti di telefoni e moduli display. Stessa dinamica per l’Indonesia, dove le merci cinesi sono aumentate del 25% in più rispetto a maggio 2024. La tattica era già stata testata durante il primo mandato di Trump, quando le importazioni statunitensi dalla Cina calarono, ma aumentarono da Vietnam e Messico.

I numeri ci dicono che i mercati restano parzialmente immuni alle tensioni politiche. Nonostante le ambizioni di rilanciare filiere industriali decotte, accorciare le supply chain e, in chiave geopolitica, definire nuove sfere di influenza, le linee produttive non possono attendere decisioni mutevoli e incerte. La fornitura di prodotti intermedi – di cui l’industria cinese è leader, mentre quella americana, nei sogni di Trump, deve ancora ricostituirsi – va garantita subito. In questo modello di interconnessione, i futures non contano. Pechino pare abbia quindi trovato la risposta efficace alle tariffe. Senza clamori, bensì all’insegna del «mutuo rispetto, dell’apertura e dell’inclusività». Così stando al ministero degli Esteri. Che sia sincero è tutto da certificare. Parole comunque distanti da quelle aggressive di Washington.