La gerarchia del Male genera mostri: il trend Gaza è più forte dei bimbi ucraini e delle donne sudanesi ma passerà, l’antisemitismo no

FILE - Sudanese displaced families take shelter in a school after being evacuated by the Sudanese army from areas once controlled by the paramilitary Rapid Support Forces in Omdurman, Sudan, March 23, 2025. (AP Photo, File) Associated Press / LaPresse Only italy and Spain

Dimenticare Gaza? Dopo che per quasi due anni quei 360 chilometri quadrati hanno occupato le prime pagine del mondo intero? Così sembrerebbe. Oggi, a Pechino, nei palazzi del potere comunista, si parla piuttosto di equilibri indo-pacifici, gasdotti sino-russi, coalizioni anti-occidentali. Mentre a Washington il tycoon Maga appare concentrato sulla demolizione dei checks and balances. Mentre a Parigi Macron attende l’ennesima crisi governativa del suo calvario politico. Mentre perfino in Italia l’attivismo pro-Pal rischia di essere oscurato dalle elezioni nelle Marche (e relative beghe). Ma se questo sta accadendo, se il mondo mostra di avere altro a cui pensare, forse è il momento di riflettere sulla dimensione comunicativa del conflitto di Gaza, sulle distorsioni percettive che ha provocato, sulle radici culturali da cui ha preso alimento. Sulla sua fragilità e, insieme, sulla sua pericolosità.

Come è noto, infatti, l’iconografia della guerra nella Striscia, divulgando a valanga le immagini dei bambini denutriti, delle madri con le pentole vuote, dei corpi senza vita, ha finito per costruire un unicum della sofferenza. Un gorgo di eccezionale disumanità (non a caso assimilato al genocidio hitleriano) che è stato in grado di sollecitare un’indignazione globale, una pietà planetaria. E di rigettare ogni dubbio. Ma il dubbio invece era ed è molto ragionevole. Perché, a pensarci, dopo la scoperta nel 1945 di Auschwitz e la condanna universale della Shoah, mai le opinioni pubbliche avevano reagito a un evento tragico con simile unanimità. Non che, in seguito, siano mancati momenti di mobilitazione popolare, come in occasione della guerra del Vietnam, del golpe in Cile, dei bombardamenti Nato sulla Serbia, dell’invasione dell’Iraq, ecc. Ma spesso a riempire le piazze erano le contrapposizioni ideologiche della Guerra Fredda, il pacifismo manovrato dall’Urss, gli umori terzomondisti e antiamericani della sinistra.

Le proteste nascevano cioè dalla politica, erano riconoscibili, erano limitate a segmenti di opinione, agli “impegnati”, ai militanti. E, del resto, mai era accaduto che un’emergenza geopolitica e umanitaria monopolizzasse l’attenzione del mondo intero, malgrado la presenza di altri e cruenti punti di crisi. Come le stragi di civili, le pulizie etniche, le torture, le carestie che tuttora sconvolgono il Sudan, l’Etiopia, la Somalia, il Sahel, il Congo, il Myanmar, il Tibet, lo Xinjiang. Milioni e milioni di corpi violati. Come il martirio dell’Ucraina, le città in macerie, gli abusi sessuali, le decine di migliaia di minori rapiti e deportati in Russia, i milioni costretti a lasciare il Paese.

C’era da chiedersi – e ben pochi l’hanno fatto – che senso avesse, nel quadro di una simile carneficina, riservare tutta quanta la pietà del mondo a Gaza. Che senso avesse questa terrificante gerarchia del Male che antepone i bambini scheletrici della Striscia ai bambini stuprati del Sudan. I bambini colpiti dalle bombe israeliane ai bambini rapiti da Putin. Lo strazio delle madri palestinesi che piangono i figli allo strazio degli stupri e delle mutilazioni genitali inferti alle donne sudanesi. C’era da chiedersi quale possa mai essere il metro di giudizio del dolore. La quantità? L’intenzionalità? Il tasso di crudeltà?

Difficile trovare una risposta razionale. Perché Gaza, con ogni evidenza, è ormai diventata il simbolo del martirio e fatalmente, Israele, il simbolo della violenza. E l’onda della pietà planetaria per i gazawi e dell’indignazione planetaria per lo Stato degli ebrei pretende di coinvolgere l’umanità stessa di ciascuno di noi. È diventata una sorta di imperativo categorico. Non mostra, cioè, alcuna matrice politica. Sembra piuttosto un fenomeno prepolitico, che germoglia sul terreno millenario, culturale, spesso inconsapevole dell’antisemitismo. Ed è facile profezia che, prima o poi, Gaza verrà dimenticata. Che la bolla mediatica della pietà planetaria finirà per sgonfiarsi. Se ne vedono già oggi i primi segnali. Resterà invece, perché non è mai morto, il fiume carsico dell’antisemitismo.