La gogna di Carminati e la soap antimafia di Raggi

Non è indifferente che “Mafia Capitale” fosse una fantasia della pervicacia accusatoria anziché una cosa vera: perché il carcere duro sofferto per anni dall’imputato principale, Massimo Carminati, si deve a quel presupposto fantasioso, a quella rappresentazione che ha contraffatto la verità fino alla sentenza finale. Le delizie del 41 bis, questa tortura di Stato, per un lustro hanno sostituito la vita di un innocente: un dichiarato fascista, certamente non “una mammoletta”, come lui dice di sé, ma innocente. Avrà fatto altro, ma non ciò che gli imputavano. La mafia che nessuno poteva capeggiare, perché non c’era, era la cosa fantastica che consentiva allo Stato di costringere una persona, per anni, in custodia cautelare, e di costringervela con la durezza che si riserva alle vittime del pregiudizio antimafioso.

La sindaca Raggi, secondo la tradizione di certo presenzialismo forcaiolo, ha creduto di dover dare testimonianza di sé assistendo alla lettura del dispositivo della sentenza emessa l’altro giorno dalla corte di appello di Roma: era la decisione che sistemava le pene dopo l’accertamento che la mafia di “Mafia Capitale” stava nei romanzi e nei reportage del giornalismo embedded in procura, ma non nelle responsabilità effettive degli imputati. E tra i “cittadini” in nome dei quali questa signora ha fatto il suo comizio ci sono anche quelli tenuti in carcere in modo improprio, prima del processo che ha accertato l’inesistenza delle aggravanti mafiose: quelle che bastano a far mandare in galera qualcuno se ad agitarne il feticcio è l’iniziativa del pm engagé.

Sarà trascurabile, ma un addebito di mafiosità senza riscontro non è meno ingiusto solo perché a esserne destinatario è l’uomo nero. Soprattutto se quell’allegazione infondata non si limita a mettere in gioco, senz’altra conseguenza, la dicitura di una rubrica di reato, ma infligge un trattamento che non meriterebbe nemmeno il colpevole, figurarsi l’innocente. La civiltà del diritto sta contro il “mondo di mezzo”, ma tanto più fermamente contro lo Stato che vi si riduce imitandone i modi e riproducendone le pratiche sopraffattorie.