C’è un aspetto della sentenza Mafia Capitale che non è emerso con la dovuta importanza nei commenti di questi giorni e che prescinde dallo specifico caso. Esso lega il metodo investigativo impiegato in vicende di questo tipo, la possibilità di controllo degli atti delle indagini preliminari al momento della irrigazione di misure cautelari e l’informazione giudiziaria. Come è noto fin dal dicembre del 2014, cioè dal momento dei primi arresti, la vera novità della indagine concerneva la “scoperta” di una mafia “originaria ed originale” della capitale.

Una “scoperta” che era fondata su di una lettura innovativa del reato previsto all’art. 416 bis che, diluendo la sua tipicità, pretendeva che l’esercizio del metodo mafioso coincidesse con le attività corruttive e che il capitale di intimidazione che le mafie accumulano prima di diventare tali potesse essere incarnato dall’impalpabile concetto di “riserva di violenza”. Il che, al di là delle fumisterie che tanto piacciono ai giuristi, significava che la Procura di Roma, in assenza di una mafia vera ne aveva inventata una che il codice penale non prevedeva. Il problema è che per sostenere tale lettura la Procura non solo aveva fatto il surf giuridico sulle parole utilizzate dal codice e sui concetti elaborati dalla giurisprudenza ma, come oggi spiega la Corte di Cassazione – pur senza mai citare la Procura stessa – aveva anche apertamente forzato il significato di molte delle acquisizioni probatorie effettuate durante le indagini preliminari: dalle intercettazioni telefoniche alle sommarie informazioni, fino alla storia giudiziaria di alcuni protagonisti, come Massimo Carminati ma non solo.

Per far comprendere ciò di cui si sta parlando è emblematica la vicenda di uno degli imputati definitivamente assolti dal reato associativo, le cui conversazioni, del tutto stravolte nel loro significato, erano state poste a base non solo della sua presunta consapevolezza di far parte di una associazione mafiosa ma anche della dimostrazione dei vincoli di omertà esistenti tra gli associati e della caratura mafiosa dello stesso Carminati. Insomma quelle intercettazioni non solo valevano a carico di un imputato ma risultavano centrali per la ricostruzione della intera vicenda e come tali erano state valutate sia dal Tribunale del Riesame che dalla Corte di Cassazione che le avevano esaminate a suo tempo valutando i ricorsi contro l’ordine di custodia cautelare.

Solo che il significato che era stato attribuito dagli inquirenti alle frasi pronunciate era talmente arbitrario che oggi la stessa Corte di Cassazione stigmatizza la questione nei seguenti termini «si tratta di un travisamento dimostrato dalla semplice constatazione del testo». Toni icastici che la Corte, per la verità, indirizza, come suo compito, alla sentenza di appello, che è l’oggetto del giudizio di legittimità ma che ovviamente riguardano anche il lavoro della Procura. Ed infatti uno degli aspetti rilevanti della vicenda giudiziaria, ovviamente silenziato dai grandi organi di informazione, è che per riconoscere l’esistenza della Mafia la Corte di Appello, ignorando le risultanze del dibattimento di primo grado, si era appiattita sulle valutazioni delle decisioni intervenute nelle indagini preliminari.

Insomma la Cassazione parla a nuora perché suocera intenda giacché le risultanze delle indagini in discorso erano proprio quelle presentate dalla Procura al Gip, e da lì passate al Tribunale del Riesame prima e poi alla Corte di Cassazione che nel 2015 aveva “certificato” l’esistenza di Mafia Capitale in sede cautelare affidandosi alla lettura degli indizi proposta dai pm. Il problema è che questo effetto perverso è il risultato di un format investigativo da sempre in uso nei processi di mafia che rende le Procure depositarie di una massa di informazioni probatorie praticamente incontrollabili da parte dei giudici prima del dibattimento (e a volte anche all’esito dello stesso) oltre che degli avvocati.

Questo tipo di indagini, infatti, si sviluppano attraverso il ricorso massiccio alle intercettazioni telefoniche ed ambientali e a servizi di osservazione e controllo videoregistrati, i vecchi pedinamenti, che coinvolgono, oltre agli indagati, anche decine di persone che con loro entrano in contatto. Tutto ciò dura anni e anni permettendo di accumulare uno sterminato serbatoio di dati probatori, di fatto non verificabili nelle prime fasi del processo, il cui significato può essere plasmato secondo le intenzioni degli inquirenti senza apparentemente forzare il dato testuale nel caso delle intercettazioni, o le immagini, negli altri casi, ma semplicemente accostandole in maniera strumentale e comunque prescindendo dalla realtà dei fatti oggetto delle stesse conversazioni e degli incontri che a volte non viene neppure investigata.

In indagini di questo tipo si registra poi, costantemente, il ricorso a spericolate congetture investigative contenute nelle informative di polizia, che in fase cautelare diventano la motivazione dei provvedimenti giudiziari in quanto oggetto di copia ed incolla da parte dei pm prima e dei giudici poi.  Nel corso del processo di primo grado di Mafia Capitale molte di queste forzature, che sostenevano proprio la costruzione giuridica del carattere mafioso dell’associazione, erano emerse di fronte ai giudici del Tribunale in maniera a volte imbarazzante ed è per questo che in primo grado l’accusa di mafia era caduta. A titolo di esempio questo ha riguardato tanto il significato di alcune conversazioni intercettate, quanto i precedenti giudiziari di Carminati, ovvero i suoi presunti ma di fatto insussistenti rapporti con esponenti delle mafie storiche o la favola della ricattabilità dei magistrati che si erano occupati delle sue precedenti vicende giudiziarie a seguito del furto del caveau, e molto altro ancora.

Ipotesi investigative, congetture, sospetti, legittimi nella fase investigativa che diventano indizi o prove perché nessuno è in grado di controllarle in fase cautelare. Inutile dire che questa messe di informazioni lette in maniera parziale, quando non apertamente fuorviante, sono quelle che poi finiscono sui media nel medesimo periodo di tempo – per Mafia Capitale ancor prima della emissione delle ordinanze di custodia cautelare – contribuendo a creare il perverso effetto del condizionamento sia della pubblica opinione che di quella giudici che via via si occupavano della vicenda. Questo in forza di un rapporto tra organi di informazione e circuiti investigativi che, da tempo, vede gran parte del giornalismo italiano embedded sul carro dell’accusa a prescindere.

Le originarie regole del codice sulle indagini preliminari e le intercettazioni, prevedendo tempi limitati tanto per le une che per le altre, ed in generale guardando con sfavore ai maxi processi, erano state dettate anche per evitare questi effetti perversi. È stata la giurisprudenza, prima ancora della ideologia dell’emergenza che ha guidato la mano del legislatore, che nei quarant’anni successivi ha svuotato di contenuto quelle regole permettendo quello che, sempre con il solito linguaggio esoterico, i giuristi definiscono gigantismo dell’accusa nel corso delle indagini.

È stata la giurisprudenza a permettere il ricorso ossessivo e troppo prolungato delle intercettazioni, a svuotare di contenuto le norme sui termini delle indagini preliminari, a legittimare il copia ed incolla, a rendere evanescente la distinzione tra indizi e congetture investigative, a consentire la pubblicazione arbitraria delle intercettazioni. È stata la giurisprudenza che ha costruito il super potere delle Procure, mettendo il pm sul piedistallo anche ai danni degli stessi giudicanti. Sarebbero ora di ripristinare il modello del processo accusatorio che mette il giudice al disopra delle parti, pm inclusi, ma per farlo non basta riformare le regole del processo: ci vuole la riforma costituzionale della giustizia per cambiare la cultura della giurisdizione.