«Libero per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare». È con questa motivazione che ieri il Tribunale del riesame della Capitale ha scarcerato Massimo Carminati. L’ex nar, soprannominato il “cecato”, era detenuto – prima a Rebibbia, poi a Tolmezzo, quindi a Parma e infine a Oristano – dal 2 dicembre del 2014. Cinque anni e sette mesi trascorsi quasi tutti in regime di 41bis. «Non può ritenersi che la condanna nei confronti di Carminati sia divenuta irrevocabile», scrivono i giudici, accogliendo l’istanza presentata dai suoi legali, gli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri. «In tal senso – proseguono – depone anche la sentenza della Cassazione che non statuisce la definitività. In parte limitatamente al trattamento sanzionatorio e in parte in punto di responsabilità (la sentenza) ha comportato la regressione del procedimento alla fase di appello, con evidenti conseguenze sia sotto il profilo dell’allungamento dei tempi processuali sia sotto il profilo strettamente cautelare. Alla regressione del procedimento alla fase di appello ha conseguito sotto il profilo cautelare una nuova decorrenza del termine di fase a partire dal provvedimento di annullamento».

Ripercorriamo, dunque, la storia dall’inizio. È un martedì mattina quando Carminati viene arrestato in diretta televisiva dal Ros. I carabinieri lo bloccano con i mitra spianati mentre si trova a bordo della sua Smart dalle parti di Sacrofano (Rm). Quella della Procura di Roma by Giuseppe Pignatone, da due anni potente procuratore della Capitale, è una indagine spettacolare, in parte già anticipata dal settimanale l’Espresso a dicembre del 2012. «È la teoria del mondo di mezzo compà. …. ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo… e allora… e allora vuol dire che ci sta un mondo… un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano…», dirà Carminati in una intercettazione, dando così involontariamente il nome all’indagine. “Mondo di mezzo” è la prima indagine per mafia a Roma. 36 gli arrestati, oltre a Carminati. Fra i reati, corruzione, estorsione, usura, riciclaggio di denaro con l’aggravante, appunto, dell’associazione di tipo mafioso. Gli inquirenti ipotizzano infiltrazioni nel tessuto istituzionale e imprenditoriale raffigurato dall’assegnazione illecita di appalti e finanziamenti pubblici da parte di Roma Capitale e delle sue aziende municipalizzate. Gli interessi principali sono nella gestione dei centri di accoglienza degli immigrati, della raccolta differenziata, dei campi nomadi e nel finanziamento di cene o campagne elettorali come quella dell’ex sindaco Gianni Alemanno nel 2013 per le comunali e nel 2014 per le europee, del suo successore Ignazio Marino, di Matteo Renzi nel 2014 e di Nicola Zingaretti alle europee del 2004.

Nell’ordinanza di custodia cautelare Carminati viene definito “capo e organizzatore, sovrintende e coordina tutte le attività dell’associazione, impartisce direttive agli altri partecipi, fornisce loro schede dedicate per le comunicazioni riservate, individua e recluta imprenditori, ai quali fornisce protezione, mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma nonché con esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti”.

A giugno del 2015 vengono effettuati altri 44 arresti tra gli uffici amministrativi del Comune di Roma e della Regione Lazio e in alcune cooperative, sempre con l’accusa di associazione di tipo mafioso finalizzata alla corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni e trasferimento fraudolento di valori. Tra gli arrestati: Luca Gramazio (consigliere e capogruppo di Pdl nella Regione Lazio), Mirko Coratti (ex presidente Pd dell’Assemblea capitolina), Daniele Ozzimo (assessore del Pd), Pierpaolo Pedetti (consigliere comunale del Pd), Andrea Tassone (ex presidente Pd del X Municipio di Roma), Giordano Tredicine (consigliere comunale di Forza Italia), Stefano Venditti (ex segretario regionale di Legacoop).

La botta è fortissima e dopo alcune settimane il sindaco di Roma Ignazio Marino (Pd) viene sfiduciato dalla sua stessa maggioranza. La richiesta parte direttamente dall’allora premier Matteo Renzi, tramite il presidente del Pd Matteo Orfini. Virginia Raggi, a giugno del 2016, diventa il primo sindaco grillino della Capitale al grido di “onestà, onestà”. Il dibattimento inizia in un clima da stadio. Per gli avvocati di Carminati si tratta di un “processetto” che fa parte «di una certa politica giudiziaria: Pignatone pensa che Roma sia una grande Reggio Calabria e applica metodi investigativi da Far West. Il meccanismo è sempre lo stesso, intercettazioni a catena, si individua un sospetto, gli si viviseziona l’esistenza alla ricerca di un reato ad ogni costo».

Il 20 luglio 2017 nella sentenza della decima sezione penale viene derubricata l’associazione a delinquere di stampo mafioso in associazione semplice. Confermate le altre accuse. Carminati è condannato a 20 anni. Il 6 marzo 2018 inizia il processo d’appello. I pm della Capitale sostengono ancora che si tratti di un’associazione di stampo mafioso e chiedono 26 anni per Carminati. L’11 settembre successivo la terza sezione della Corte d’Appello di Roma ribalta il primo grado e riconosce la sussistenza del “metodo mafioso”, condannando Carminati a 14 anni e sei mesi. Il 22 ottobre 2019 la Cassazione annulla l’aggravante mafiosa a carico degli imputati, rilevando la presenza di due distinte associazioni “semplici”: quella di Salvatore Buzzi e quella di Massimo Carminati. Delibera, inoltre, la celebrazione di un nuovo processo d’appello bis per ricalcolare le pene. Le motivazioni sono state rese note la scorsa settimana.
In serata il ministro Alfonso Bonafede ha fatto sapere di aver inviato gli ispettori al Tribunale di Roma.