Massimo Carminati è tornato libero ieri, dopo 5 anni e sette mesi di carcere, molti dei quali passati in regime di 41 bis. Solo che per i reati riconosciuti come tali con sentenza definitiva dalla Cassazione quegli anni di carcere duro erano immeritati: Mafia Capitale non era mafia e anzi non era proprio. Le motivazioni della Cassazione, rese note pochi giorni fa, confermano quel che era già chiaro a chiunque avesse occhi per vedere sin dalla prima ordinanza di arresto: le organizzazioni erano due, distinte e diverse nonostante la presenza in entrambe del malavitoso probabilmente più famoso d’Italia. Ma nessuna delle due aveva niente a che vedere con la criminalità organizzata. Corruzione. Recupero crediti. Rapporti con vecchi neofascisti, non le cosche o le ‘ndrine.

Caduta l’accusa più pesante, quella di associazione mafiosa, e avendo il condannato già scontato due terzi del reato più grave, Carminati doveva essere scarcerato per scadenza termini nel processo Terra di mezzo bis. La stessa condanna a 14 anni e mezzo dovrà del resto essere rideterminata sulla base della sentenza di Cassazione. Tuttavia per 3 volte la Corte d’appello aveva rigettato l’istanza di scarcerazione, senza obbligo di dimora né di firma, accolta invece ora dal Tribunale del riesame. «Quando si tratta di carminati, perché siano riconosciuti i suoi diritti bisogna sempre ingaggiare lotte furibonde», ha dichiarato Francesco Tagliaferri, con Cesare Placanica legale del “Nero”, come era stato ribattezzato Carminati nel fortunatissimo Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo.

È una frase che definisce da sola l’intera parabola di Carminati, che sconta, oltre a effettivi crimini, l’aggravante pesantissima del suo stesso mito, della leggenda nera costruita intorno al suo nome e alla sua biografia. L’ordinanza sulla quale si basava il teorema di Mafia capitale, smantellato sin nelle fondamenta dalla Cassazione rivelava infatti che l’intero impianto poggiava su una base sola, la “straordinaria caratura criminale” di Carminati. Se c’era lui di mezzo, non poteva che trattarsi di mafia. Anche senza fatti di sangue, senza minacce, senza ricatti. Quella che sembrava, ed era, una fra le tante vicende di corruzione e mala amministrazione diventava la versione moderna di Cosa nostra in virtù della presenza del Nero. Se c’era lui, doveva per forza essere mafia. Se c’era lui, non erano necessarie le minacce: bastava il nome.

Per la medesima ragione, uno stuolo di cronisti esperti e scafati che in circostanze diverse non avrebbero probabilmente mancato di avanzare almeno dubbi su un impianto che chiamarlo azzardato era poco, accettarono a scatola chiusa, nel dicembre 2014, la tesi-bomba della Procura, quella che avrebbe portato di lì a poco alla caduta imposta dall’allora segretario del Pd Renzi del sindaco Marino. Quella senza la quale oggi Virginia Raggi non sarebbe prima cittadina della Capitale e l’intera storia di Roma, ma probabilmente anche d’Italia, non sarebbe la stessa. Come spesso capita in Italia, la leggenda di Carminati, poi portata al parossismo da giornalisti e scrittori, deriva più dalle frequentazioni che dai crimini accertati. Giovane neofascista milanese trasferitosi con la famiglia a Roma, alla fine degli anni 70 costeggia sia i Nar, la principale banda armata di destra nella storia dell’Italia repubblicana, che la celeberrima banda della Magliana.

Non fa parte a pieno titolo né degli uni né dell’altra. Tra neofascisti e banditi comuni i rapporti erano stretti, perché molti ragazzi in armi di estrema destra, come lo stesso Carminati o Alessandro Alibrandi, altro nome di primo piano dei veri Nar, subivano la fascinazione di una vita al di fuori della legge e perché molti criminali, come lo stesso primo capo della Magliana, Franco “er Negro” Giuseppucci, erano fascisti. Carminati costeggia entrambe le aree, partecipa ad alcune azioni, come la grande rapina alla Chase Manhattan Bank portata a termine dai neofascisti romani (non solo Nar) nel dicembre 1979.

Secondo i pentiti si incarica anche di un’esecuzione per conto di Giuseppucci, il vero e quasi unico tramite con la banda della Magliana. Gli attribuiscono un omicidio eccellente, quello del giornalista Mino Pecorelli, dopo aver tentato invano di addebitarlo a Valerio Fioravanti. Verrà assolto e al processo contro la Banda risulta a tutti gli effetti un imputato minore. Calato il sipario su Nar e “bandaccia”, Carminati torna agli onori della cronaca nera per il colpo al caveau del palazzo di Giustizia di Roma del luglio 1999. Grazie all’appoggio di complici interni, i rapinatori si portano via quasi 150 cassette di sicurezza e 50 mld di vecchie lire. Ma cronisti e reporter favoleggiano sull’appropriazione di documenti che permetterebbero a Carminati di ricattare mezzo palazzo di Giustizia.

Nel 2012 un’inchiesta dell’Espresso lo incorona come uno dei “quattro re della Roma” criminale. Gli altri tre, Michele Senese, Peppe Casamonica e Carmine Fasciani, sono pezzi da 90, noti e conosciuti come tali senza bisogno di scomodare lo scoop. La clamorosa rivelazione, tanto clamorosa da non richiedere alcuna prova, in certi casi basta la parola, riguarda il ruolo di carminati. Un paio d’anni e l’inchiesta più deflagrante fallimentare dell’ultimo decennio arriva a supportare la tesi ardita, salvo totale sconfessione da parte della Cassazione. Ma la vicenda di Massimo Carminati è lontana dall’essere chiusa. Se si trattasse solo di un imputato o di un condannato sarebbe almeno alle ultime battute. Ma con un mito e un simbolo è un’altra cosa…