“La guerra nucleare fa paura ma manca un obiettivo strategico”, intervista a Nathalie Tocci

Putin arriverà a schiacciare il bottone nucleare? È la domanda che scuote il mondo. Il Riformista ne discute con Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, tra i più autorevoli think tank europei di politica estera. È stata Special Adviser dell’Alto rappresentante dell’Ue Federica Mogherini e di Josep Borrell.

C’è davvero il rischio che la guerra in Ucraina si trasformi in quello che più si teme: una guerra nucleare?
Da un punto di vista razionale, la risposta è no. Partiamo col dire che un attacco militare, convenzionale o non convenzionale, per definizione deve avere un obiettivo strategico. Non è chiaro quale sarebbe l’obiettivo strategico, militarmente parlando, di un attacco nucleare. L’obiettivo strategico di un attacco nucleare è riconquistare territori persi dai russi nell’est del Paese? Se quello è l’obiettivo, che cosa ci si immagina che ci sia un attacco nucleare sui propri territori e quindi anche sulle proprie Forze armate e sui propri “cittadini” recentemente annessi? È difficile immaginarlo. Oppure, altro scenario, un attacco nucleare su Kiev. Perché l’obiettivo rimane quello del cambio di regime? Ma se così fosse quale sarebbe la reazione del mondo ad un attacco nucleare sulla capitale di uno Stato sovrano? E quando parlo di mondo non intendo soltanto l’Occidente ma anche la Cina. Non è chiaro come la Russia riuscirebbe a cambiare l’esito di una guerra che sta perdendo, attraverso l’uso dell’arma nucleare. Da un lato c’è questo, e dall’altro ci sono tutti i costi per la Russia. Costi che possono andare da quelle che sono le risposte dell’Occidente, a partire dagli Stati Uniti, che sarebbero risposte probabilmente in ambito convenzionale ma che avrebbero, come più volte ribadito dagli esponenti dell’Amministrazione Usa e dallo stesso presidente Biden, conseguenze catastrofiche per la Russia. Per Mosca ci sarebbe un costo altissimo da pagare. Un altro costo gravoso, altamente probabile, per la Russia sarebbe quello di perdere qualsiasi tipo di alleanza e di sostegno internazionale, a partire dalla Cina. La Cina su questo è stata abbastanza chiara a Samarcanda, qualche settimana fa. Si vedono tutti i costi e non si intravvedono i vantaggi. Sotto questo punto di vista, verrebbe da rispondere no alla domanda che tutti si pongono. E questo anche da un altro punto di vista…

Quale?
Facciamo un parallelismo e guardiamo a come sono andate le cose dall’inizio di questa guerra. Prima del 24 febbraio, Putin negava che ci sarebbe stata un’invasione, e con lui i suoi fedelissimi, dentro e fuori la Federazione Russa. Poi sappiamo come è andata. L’invasione c’è stata. Adesso lo sta strombazzando ai quattro venti che ci sarà un attacco nucleare. Questo dà il senso di un’azione che è più politica che militare. E per politica intendo un’azione che mira a metterci più paura. Però puoi mettere paura soltanto quando la minacci e non quando agisci sulla minaccia. C’è tutto l’interesse, da parte del Cremlino, di alimentare questo timore che alla fine realizzi questa minaccia. E in questo senso vanno gli annunci, reiterati, alla mobilitazione, anche sul fronte nucleare. Detto tutto questo, che porterebbe a un no secco, un’ulteriore riflessione va fatta. Quando diventa evidente che una guerra è persa, si può fare di tutto. Faccio un confronto volutamente molto forte…

Vale a dire?
Hitler probabilmente nel dicembre del ’41 aveva capito che aveva perso la Seconda guerra mondiale. Eppure dal dicembre del ’41 al ’45 c’è stata una cosa terrificante come la “Soluzione finale”. Non ha cambiato l’esito della guerra ma non si può certo affermare che ciò che è stato fatto non sia stato devastante. Questo per dire che la razionalità, soprattutto in una guerra, non spiega tutto. E l’irrazionalità a volte può produrre eventi che si ha paura solo a immaginarli.

Alla luce di queste riflessioni, lei come definirebbe lo stato di salute del regime putiniano. La minaccia nucleare può essere letta anche come il tentativo disperato di un leader che non si sente più così saldo al potere?
Quando si tratta di regimi molto chiusi e che diventano sempre più autoritari, è estremamente difficile riuscire a prevedere qual è la goccia che fa traboccare il vaso. Quando si manifesta un dissenso interno, e questo c’è oggi in Russia, fino a che punto funziona la repressione a ricreare stabilità e quando invece la repressione non solo non funziona più, ma diventa essa stessa ulteriore causa di destabilizzazione. Individuare questa “goccia” non è facile. Lo dico da politologa. Chiediamoci perché siamo stati così incapaci come studiosi a prevedere esattamente quando sarebbe crollata l’Unione Sovietica, per fare un esempio più vicino. Questo può accadere perché, per quanto possiamo identificare tutti quei fattori d’insostenibilità, economica, sociale, politica, istituzionale e via elencando, resta il fatto che la goccia che fa traboccare il vaso è impossibile da prevedere. Se la domanda è: riesco a vedere questo regime di Putin tra dieci anni, la mia risposa sarebbe no. Potrebbe accadere qualcosa domani mattina, tra sei mesi, tra due anni, ma il momento esatto è impossibile da prevedere. Quello che è evidente è che in Russia si è rotto il patto sociale tra Stato e società. Il patto sociale che reggeva il regime, che di fatto era costituito da uno scambio: io ti do relativa stabilità e in cambio voi mi appoggiate. Questa relativa stabilità adesso è venuta meno perché la guerra è entrata nelle case di tutti i russi, con la mobilitazione dei coscritti. È venuta meno perché il peso delle sanzioni morde sempre più la quotidianità della popolazione. E questo patto si è rotto anche perché è venuta meno l’efficacia di quella narrazione sulla Russia grande potenza, sulla nuova Guerra patriottica. Per quanto Putin cerchi oggi di rigirarsi la frittata e di configurare questa guerra come una guerra contro l’Occidente, sta di fatto che sul campo di battaglia la sta perdendo contro gli ucraini, contro una nazione che nel suo immaginario imperiale neanche doveva esistere. È una umiliazione pazzesca. Viene meno l’orgoglio, viene meno l’economia, viene meno la sicurezza intesa come sicurezza della propria vita, perché si va al fronte a morire, e quindi cade il patto sociale. Se poi questo patto sociale possa venire ricreato e su quali basi, questo è difficile per non dire impossibile prevederlo. Certo è che l’equilibrio fin qui esistente è venuto meno. E per un leader che voleva rinverdire i fasti imperiali dello zar Pietro il Grande, non c’è sconfitta più bruciante. Da questo punto di vista, Putin la guerra l’ha già persa. Dal confronto col passato ne esce perdente. Quanto al futuro, in gioco c’è la sua sopravvivenza.

Guardando ciò che si sta determinando dal punto di vista dell’Occidente, dell’Europa ma soprattutto degli Stati Uniti, qual è l’obiettivo strategico da perseguire: un tempo si sarebbe detto la liberazione dell’Ucraina e il ripristino di una piena sovranità su tutto il territorio nazionale. Ma oggi è ancora così o si punta, come qualcuno sostiene, all’abbattimento del regime di Mosca?
A me pare che l’obiettivo sia abbastanza chiaro. È la liberazione dell’Ucraina. L’Ucraina è ancora un Paese aggredito. Ha ancora non più il 22-23 ma il 17-18% del proprio territorio occupato. La battaglia è ancora lunga, questo spesso ce lo dimentichiamo. A volte le parole che utilizziamo tendono a diventare fuorvianti. Parliamo di contro offensiva come se oggi ci fosse una offensiva ucraina e non, come dovrebbe essere, di una campagna di liberazione di un territorio occupato. Io credo che sia questo, né più e né meno. E non tanto e solo per l’Ucraina. Perché quello che rischia di franare è un po’ tutto l’impianto che sorregge l’ordine internazionale. Dal ‘45 siamo stati in disaccordo pressoché su tutto, ma se c’erano due cose sulle quali eravamo d’accordo erano i principi di sovranità e integrità territoriale. Principi che erano un pilastro portante dell’ordine internazionale. E questo chiama in causa anche le velleità che la Cina può avere nei riguardi di Taiwan. Per dire che l’interesse degli Stati Uniti è legato a questioni globali che vanno ben oltre l’Ucraina. Non cadiamo nella trappola per cui gli Stati Uniti intendono far fuori la Russia. Magari è stato inopportuno e sicuramente poco diplomatico per Obama definire all’epoca la Russia come una “potenza regionale”, ma è questo il sentire comune negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non si confrontano in alcun modo con la Russia, un Paese che ha un Pil più basso della Spagna. Il punto è che la Russia conta nella misura in cui quello che sta facendo va molto oltre la Russia stessa, quando parla di questioni globali che vanno ben oltre. E quelle sì che sono questioni che interessano gli Stati Uniti. Ma non la Russia in quanto tale. Se la Russia, autoritaria che sia, se ne sta all’interno dei suoi confini, magari è un problema per noi europei ma non certo per gli Stati Uniti.