La scelta della Russia di ritirarsi dall’accordo sul grano nel Mar Nero, la cosiddetta “Black Sea Initiative”, ha provocato subito (e inevitabilmente) una lunga serie di interrogativi. Cosa vuole il presidente russo Vladimir Putin in cambio di un ritorno nell’alveo dell’accordo? E se Mosca persegue in questa decisione, che ripercussioni può provocare sulla stabilità mondiale e cosa pensa, parallelamente, di ottenere il Cremlino?
Alla prima domanda, le risposte da dare non sembrano affatto semplici. Secondo gli Stati Uniti, quanto detto da Putin riguardo i fertilizzanti e le sanzioni sui cereali russi sarebbe in realtà destituito di fondamento, escludendo di fatto una trattativa su questi punti. L’impressione, quindi, è che eventuali contropartite per far cambiare idea al presidente russo riguardino altri settori, ben distanti dal fondamentale tema alimentare. E non è da escludere che questo negoziato possa riguardare anche le mosse dell’Ucraina nel Mar Nero e sul fronte meridionale, considerato anche il tempismo del mancato rinnovo dell’accordo con il sabotaggio di Kiev al ponte che unisce Crimea e Russia.
Alcuni osservatori e una parte dei leader, soprattutto mediorientali e africani, ritengono plausibile che alla fine Putin si lasci convincere in base a ulteriori (e al momento ignote) concessioni. Intanto però, la mancata garanzia per la navigazione dei cargo ucraini nel Mar Nero ha già provocato le preoccupazioni della comunità internazionale, specialmente per gli effetti sui Paesi più esposti nell’import di cereali provenienti dal Paese invaso. In realtà, come sottolineato da molti analisti, non tutto il grano ucraino che passa per il Bosforo è servito a rifornire gli Stati a rischio di crisi alimentari. Anzi, tra i primi importatori spiccano Cina, Spagna e Turchia: non certo considerabili alla stregua di molte nazioni africane o asiatiche a loro volta interessate da questo stop.
Tuttavia, la mossa di Putin di voler regalare migliaia di tonnellate di questo prezioso bene di prima necessità ad alcuni Stati dell’Africa sottolinea la grande strumentalizzazione politica di questa decisione sul Mar Nero. Così come l’interesse del Cremlino a blindare i rapporti con i principali partner del continente. Un primo effetto politico di questa mossa è stato dunque quello di rafforzare i legami di Mosca con gli alleati africani, intenzionati a evitare qualsiasi minaccia di instabilità che possa colpire una regione già fragile e indebolita da crisi sistemiche.
Ma c’è un secondo effetto, sempre politico, che sta interessando invece un’altra parte del mondo: ovvero l’Europa. Perché, se l’assenza di garanzie di sicurezza nel Mar Nero impedisce alle navi ucraine di muoversi liberalmente verso il Mediterraneo e i porti che attendono questa preziosa merce, in molti si domandano come possa essere esportato il grano ucraino alternativamente a questa rotta marittima. Una prima proposta di aiuto è arrivata dalla Lituania, confermando il consolidato legame tra i Paesi baltici e l’Ucraina dall’inizio della guerra.
Vilnius, attraverso le parole del ministro dell’Agricoltura Kestutis Navickas, ha proposto che per l’export di questi carichi siano utilizzati i porti di Klaipeda e Liepaja, con l’Unione europea che garantirebbe il transito ferroviario e con rigidi controlli doganali. Altre possibilità riguardano l’utilizzo dei terminal sul Danubio, pericolosamente vicini al fronte di guerra ma già utilizzati in questi mesi per unire il Mar Nero all’Europa. Oltre all’ipotesi lituana di corridoi “verdi” o “di solidarietà”, Politico ha anche citato altri scenari proposti dall’Ucraina, come l’utilizzo dei porti di Amburgo, Rostock Rotterdam, Rijeka, Capodistria o anche Trieste. Tutte ipotesi certamente possibili – e per molti analisti anche auspicabili vista la necessità di grano ucraino nel mercato mondiale – ma che secondo i funzionari europei e dei singoli Paesi coinvolti nel transito rischiano di essere costose, a causa delle difficoltà logistiche. Inoltre, dal momento che sarebbero i Paesi dell’Europa orientale i primi interessati da questi nuovi corridoi del grano ucraino, c’è il rischio di una complicata contrattazione con questi governi sulla distribuzione dei costi e soprattutto sul blocco dell’importazione in Unione europea dei cereali di Kiev.
Il tema rappresenta un ulteriore dossier divisivo nel sistema di Bruxelles, con cinque Paesi, ovvero Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria, che hanno già chiesto di prorogare fino alla fine del 2023 il blocco dell’import dall’Ucraina. Un embargo che al momento dovrebbe scadere a metà settembre. La scelta di questi governi deriva dal fatto che l’arrivo dei cereali dal Paese in guerra ha provocato uno squilibrio nel mercato del continente scatenando la rabbia degli agricoltori locali. Molti temono una forma di concorrenza sleale per l’enorme quantità di grano e altri cereali a prezzi molto più bassi rispetto a quelli prodotti in questi Paesi con standard Ue. Per questo, la Commissione europea e Kiev devono trovare un modo per evitare che il grano che passa per l’Ue attraverso i nuovi corridoi sia a costo zero per questi Paesi.
Bruxelles ha promesso di trovare una soluzione entro settembre sia per le rotte del grano sia per il bando ai prodotti agricoli ucraini nel continente. La questione però è tutt’altro che semplice e può rappresentare un ostacolo soprattutto se declinata in chiave elettorale. La Polonia vota in autunno, e nessuno a Varsavia vuole perdere consensi.
