Quando nei giorni scorsi Novak Djokovic ha lanciato l’allarme dicendo che il tennis deve iniziare a preoccuparsi della crescente popolarità di padel e pickleball, lamentando un limite alla popolarità del gioco a causa dell’elitarismo della sua disciplina e dei costi che non tutti i bambini possono sostenere per praticarlo, in molti abbiamo pensato che il monito del numero due del mondo fosse un momento di necessaria riflessione. Forse un po’ fuori tempo massimo, ma con tutte le buone intenzioni del mondo. Djokovic ritiene che il tennis non sia sufficientemente accessibile ed economico per i bambini che desiderano praticarlo, il che minaccia il suo futuro. Un tema già in discussione nei circuiti organizzativi, pur senza idee che fin qui abbiano invertito la rotta. Per questo ha proposto la creazione di una fondazione per proteggere il tennis a livello di club dalla concorrenza di altri sport.
Il fair-play di Wimbledon
Pochi giorni dopo l’allarme sul futuro, in seguito alla sua vittoria contro Holger Rune, Djokovic si è invece avventurato in una polemica contro il pubblico rumoroso a lui ostile. Ed anche qui in molti abbiamo simpatizzato per lui. Senza nominarle ha toccato le corde della nostalgia per il tennis che fu, in cui pure i telecronisti modellavano i loro interventi su poche parole e religioso silenzio durante gli scambi. Un tennis seguito da un pubblico composto che sembra in via d’estinzione pure all’All England Lawn Tennis and Croquet Club di Wimbledon. E proprio lì, dove da sempre il pubblico di casa fa vanto di un fair play così diverso, signora mia, da quello dei cugini statunitensi, si è riaperto il dibattito sulla storica compostezza perduta.
L’aplomb
Ma da dove viene questo aplomb? Nel 1923 lo Spalding’s Lawn Tennis Annual lo spiegava cosi: i giocatori erano della stessa classe sociale – e, per dirla tutta, della stessa etnia – del pubblico, al contrario di altri sport. La compostezza quindi sarebbe stata una sorta di ostentazione classista: egualitarismo, appartenenza e autoriconoscimento tra gentleman. Negli anni ’20 dello scorso millennio, gli esclusivi club tennistici, tra cui il Marylebone Cricket Club di Londra e il West Side Tennis Club di New York, esercitavano un’influenza incredibile su come appariva lo sport, chi lo praticava e come. Le organizzazioni tennistiche che mettevano in piedi i tornei non permettevano la discriminazione, ma nei club la musica era tutt’altra, con l’esclusione attiva degli atleti neri ed ebrei dai livelli più alti. Al contempo, va pure ricordato come il tennis fu tra le prime discipline ad accettare e promuovere l’attività tra le donne, divenute star della disciplina già negli anni ‘20 del secolo scorso, come Suzanne Lenglen. E questo anche perché per anni il tennis era tenuto più vicino al concetto di hobby che di sport.
Crescita popolare
Negli anni ‘50 fu l’intervento di Eleanor Roosevelt e del sindaco di New York City a costringere il West Side TC a porre fine alle politiche discriminatorie. Ma erano queste policy, secondo l’annuario del 1923, a conservare il tennis per ciò che era stato: un’attività, non uno sport, per persone bianche e mediamente benestanti, senza alcuna discriminazione tra di esse e per questo fedeli ad un autoimposto contegno sugli spalti. Una storia controversa in cui l’elitarismo delle origini fa attrito con la crescita popolare, in cui i moderni rumori di fondo sembrano dare ragione a quella interpretazione. In un mondo perfetto l’antica disciplina della racchetta attirerà sempre più tifosi e praticanti silenti, ossequiosi della sacrale ritualità. In quello assai imperfetto in cui viviamo, invece, la partecipazione tifosa del pubblico andrà probabilmente messa in conto. Del resto nessuno sui campi di padel e pickelball, dove molti arrivano con tutt’altro background – e molto spesso grazie agli endorsement dei calciatori – ha mai preteso religioso silenzio. Ed allora, forse, qualche coro da stadio sarà il tributo da pagare alla diffusione popolare di uno sport di grande tradizione, ma dal futuro in discussione.
