Dopo l’aggressione al collega e amico Rino Casella, la domanda che tutti – ma in particolare il Rettore e la governance dell’Ateneo – dovrebbero porsi è cosa debba ancora accadere perché si decida di intervenire, per garantire a tutti coloro che insegnano e studiano all’Università di Pisa di esprimersi liberamente e senza rischi per la propria incolumità.

Il clima che si respira in Ateneo è già da molti mesi pesantissimo: il punto non era dunque se dalle parole si sarebbe passati alla violenza fisica, ma quando. Quanto successo durante la lezione del prof Casella (offeso e infine malmenato da un gruppo di studenti “pacifisti”, per i quali evidentemente la non-violenza va applicata selettivamente) era un evento annunciato; ritengo moralmente responsabile il Rettore Zucchi di un eventuale, possibile peggioramento dell’attuale situazione: ha tollerato dapprima le “accampate” pro-Pal, con tanto di bandiere e tende nel giardino del mio Dipartimento (con relativi danni, ma si sa, “sono ragazzi”), poi le scritte contro Israele sul muro del Polo della Memoria “San Rossore 1938”. Scritte che non sono state rimosse, nonostante una richiesta arrivata anche dalla Comunità Ebraica, con la risibile motivazione della mancanza di fondi. E ha infine spinto per la sospensione degli accordi bilaterali con la Hebrew University e la Reichman University, colpevoli – a suo dire – di “rapporti con l’esercito israeliano”, contribuendo alla “mostrificazione” di Israele.

Già a dicembre 2023, quando la guerra a Gaza era appena iniziata e gli ostaggi erano ancora tutti nelle mani di Hamas, si erano avute le prime avvisaglie di boicottaggio: due colleghi del mio Dipartimento e membri del Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici “Michele Luzzati” (CISE), di cui ero all’epoca direttore, si sono opposti alla presentazione dell’ottimo libro di Samuele Rocca sugli ebrei nell’Italia imperiale. Il motivo? Lo studioso insegnava “anche ad Ariel”, un Ateneo che si trova nei cosiddetti “territori occupati”. Non ci si opponeva, insomma, ad accordi bilaterali, ma a un invito a un singolo studioso, peraltro noto per la sua avversione a Netanyahu.

Pochi mesi dopo, il nuovo direttore del CISE e la Giunta mi hanno negato il patrocinio per una giornata di studio sulle università israeliane dopo il 7 ottobre, che vedeva invitati anche docenti di chiara fama come Sergio Della Pergola e Tamar Herzig. Anche in questo caso, la motivazione era risibile: non si trattava – a loro giudizio – di un convegno sufficientemente scientifico. Senza patrocinio, l’evento ha dovuto essere cancellato. Il Rettore, che pure aveva promesso di dare spazio a tutte le voci, in nome della par condicio, di fatto non si è mai sforzato di promuovere iniziative che consentissero di confrontarsi partendo da narrative diverse.

In seguito, sono arrivate le mozioni dei Dipartimenti, tutte ovviamente contro Israele. Significativo che i colleghi, così profondamente scossi da quanto stava accadendo a Gaza, non abbiano mai sentito l’imperativo morale di esprimersi relativamente ad altre tragedie umanitarie, sei delle quali considerate dagli organismi internazionali assai più gravi e con un numero di vittime molto più elevato. La mozione del Dipartimento di Scienze Politiche ha avuto un solo voto contrario, quello del docente aggredito: da allora, i suoi simpatici colleghi ne parlano come del “sionista Rino Casella”. Nel mio Dipartimento, i voti contrari sono stati pochi di più, oltre a qualche astenuto: in compenso, qualcuno è intervenuto sostenendo che Hamas non sarebbe solo un gruppo terrorista ma un soggetto politico, rammaricandosi del fatto che non sia possibile firmare accordi di cooperazione scientifica.

In questo clima avvelenato, il 5 settembre c’è stato un ennesimo deplorevole episodio: durante la cerimonia in cui si commemora da anni la firma a San Rossore – allora proprietà dei re d’Italia – delle leggi razziste che trasformarono 50mila cittadini ebrei italiani in individui di serie B, il presidente dell’ANPI si è esibito in un improvvido accostamento tra quell’evento e Gaza, invitando “a non voltarsi dall’altra parte”. Invito curioso, visto che ormai non c’è tg che non si apra informandoci di quanti civili l’esercito di Israele avrebbe eliminato.

L’aggressione al collega, dunque, non mi stupisce. Mi stupisco, anzi, che sino ad ora non abbiano aggredito anche me. Come Casella, anche io sono “sionista”, termine che nella mente di alcuni si configura ormai come un insulto, anche se c’è da dubitare che gli odiatori pro-Pal abbiano studiato abbastanza da sapere che cosa fu veramente il sionismo. Tutti costoro affermano di essere “solo” antisionisti, non antisemiti; negano il diritto all’esistenza di Israele e dividono ormai da mesi gli ebrei italiani in “buoni” e “cattivi”. I buoni, ovviamente, sono quelli che si affannano a dichiararsi contro Israele. Gli altri sono cattivi, e quindi vanno insultati e boicottati.

Questo clima violento e intollerante mi riporta con la memoria ai giorni bui del 1982, e ai sempre più espliciti discorsi d’odio, con il tragico epilogo dell’attentato alla Sinagoga di Roma, con oltre 40 feriti e un morto, il piccolo Stefano Gay Taché, di soli due anni. E mi chiedo: dobbiamo aspettare un’altra tragedia simile per porre un freno alle manifestazioni d’odio antiebraico negli Atenei e sui social?

Alessandra Veronese

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