Lavoro e istruzione. Un nuovo modello di carcere dovrebbe avere questi due obiettivi tra le sue priorità. E per raggiungere poi concretamente questi due obiettivi dovrebbe avere a disposizione spazi della pena adeguati e risorse sufficienti sia in termini di mezzi sia di uomini. Al momento manca un po’ tutto: mancano le risorse, mancano gli spazi e questi obiettivi sembrano lontane chimere.
La relazione semestrale, presentata l’altro giorno dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, mette nero su bianco numeri e dati che disegnano un quadro dove sono ancora tante, troppe, le cose che mancano. Prendiamo come riferimento la voce «lavoro»: nei primi sei mesi del 2022 in Campania sono circa 3mila i detenuti che lavorano, pari al 45% della popolazione reclusa. Nella maggioranza dei casi, come spiega il garante, si tratta di lavoro a tempo ridotto e tra coloro che lavorano 2.641 (su 3mila sono la quasi totalità) sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, solo 334 lavorano per datori esterni al circuito penitenziario. «Va comunque registrato che il numero di detenuti impegnati in attività rilevanti è troppo basso. Ad esempio, a Poggioreale risulta essere meno de 13%», si legge in un passaggio del relazione in cui si fa riferimento a dati raccolti anche dall’associazione Antigone.
Insomma, sul fronte lavoro come funzione rieducativa della pena c’è ancora strada da fare. Così come c’è strada da fare se si pensa all’istruzione all’interno delle carceri. I dati diffusi dal ministero della Giustizia parlano di una percentuale bassissimi di detenuti con un livello di istruzione medio-alta, e questo non fa altro che confermare quanto il carcere sia diventato e continui ad essere un contenitore di disagi e devianze sociali. La maggior parte delle persone detenute proviene da contesti familiari e sociali difficili, da periferie degradate dove le opportunità di autonomia e di crescita nella legalità sono poche e dove il livello culturale è basso, talvolta bassissimo. Basti pensare che solo il 2,1% dei detenuti ha una laurea e solo il 15,5% ha un diploma di scuola superiore, il 2,9% di chi è in cella è analfabeta, il 2,2% non ha alcun titolo di studio, il 17,5% ha la sola licenza elementare e il 57,6% la licenza media inferiore.
Se si concepisce la scuola e quindi l’istruzione come uno dei pilastri su cui poggiare la funzione rieducativa della pena è ovvio che queste percentuali vanno ribaltate attraverso un impegno sinergico di politica, scuola, famiglia, società, istituzioni. È notizia di questi giorni la laurea del primo detenuto studente del Polo universitario penitenziario della Federico II di Napoli. Si tratta di un detenuto che ha conseguito il diploma di scuola superiore nella casa circondariale di Secondigliano e si è poi iscritto al polo universitario penitenziario arrivando ad essere proclamato dottore in Scienze sociali a pieni voti (110 e lode) discutendo una tesi dal titolo “Lo studio negli istituti penitenziari: il valore educativo tra formazione, resipiscenza e recidiva. Education and imprisonment” con il professor Roberto Serpirei.
Una notizia positiva che getta una luce nel buio del carcere dei diritti mortificati e delle opportunità negate. Il carcere dove ancora si conta un educatore per ogni 221 detenuti, dove il livello di scolarizzazione tra i detenuti è ancora basso. Su una popolazione di 6.853 detenuti, in Campania, 419 hanno un’alfabetizzazione di primo livello (129 dei quali sono stranieri), 933 hanno un’istruzione di secondo livello (38 gli stranieri), 81 hanno il diploma e 72 la laurea triennale o magistrale (di cui 3 sono stranieri). C’è ancora tanta strada da fare!
