L’Europa è una fortezza feroce, lungo i suoi confini morti e violenza

La strage del 24 giugno 2022 a Melilla nella quale hanno perso la vita 37 persone non può rimanere una delle tante tragedie delle migrazioni da dimenticare al più presto, bensì deve portare a una svolta non solo nella gestione di quel confine funestato da anni molte morti, ma nelle politiche dell’Unione Europea nella gestione generale delle migrazioni. Il 26 giugno, a ridosso della strage, il Consiglio Nazionale per i Diritti Umani (CNDH) del Marocco diramava un comunicato nel quale chiedeva di «aprire un’inchiesta giudiziaria approfondita e imparziale su questi eventi al fine di determinare le responsabilità, conoscere il numero totale delle vittime, determinare le loro identità e ordinare le autopsie necessarie, prima di autorizzare la sepoltura».

Due giorni dopo, il 28 giugno, il Comitato delle Nazioni Unite per i lavoratori migranti (CMW) da Ginevra pubblicava una nota con cui evidenziava come «non è ancora stato stabilito se le vittime siano morte cadendo dalla recinzione, in una calca o a causa di azioni intraprese dagli agenti di frontiera. Gli esperti indipendenti hanno esortato i due Stati a condurre indagini immediate e approfondite e a chiamare i responsabili a rispondere delle loro azioni». Lo stesso Comitato delle Nazioni Unite si diceva sconvolto «dalla morte di questi migranti che intendevano attraversare il confine per cercare una vita migliore sulla base dei loro legittimi diritti umani». Il citato Comitato, nel ricordare che «il governo marocchino è tenuto a preservare i corpi delle persone decedute, a identificarle completamente e a informare le loro famiglie, nonché a fornire il supporto necessario per il trasferimento dei corpi» sottolineava altresì che «l’uso della forza pubblica in caso di detenzione deve essere proporzionato e deve rispettare, in ogni momento, i diritti umani delle persone nel contesto della migrazione».

Parole molto lontane dalle roboanti dichiarazioni politiche rilasciate in Marocco come in Spagna che additavano i migranti solo come violenti criminali. La lentezza nell’accertamento delle indagini sulle pubbliche responsabilità pare contrastare con la velocità con la quale invece già il 4 luglio presso il Tribunale di prima istanza di Nador (Marocco) si è provveduto all’avvio di un processo contro 36 migranti, tra cui un minore, accusati di violenza contro agenti delle forze dell’ordine, distruzione di beni pubblici, possesso di armi da taglio, ingresso e uscita illegali dal territorio nazionale marocchino. C’è dunque stato, nella gestione dei fatti del 24 giugno, un uso sproporzionato della forza da parte delle polizie marocchine e spagnole? Sono stati usati, a distanza ravvicinata, proiettili di gomma? I soccorsi ai feriti sono stati tempestivi o come appare da alcuni video agghiaccianti diffusi dalla Associazione marocchina per i Diritti Umani (AMDH) di Nador decine di corpi di persone morte e ancora vive abbandonati sotto il sole? Secondo il Gruppo di lavoro Migrazione e tortura in Africa, istituito su iniziativa dell’Organizzazione mondiale contro la tortura (OMCT) la polizia marocchina «avrebbe usato vari metodi di repressione, tra cui la fustigazione e il “kettling”, noti per provocare calca e violenza, lasciando le vittime senza assistenza per ore» mentre dall’altro lato, la Guardia Civile spagnola avrebbe sparato incessantemente fumogeni contro le persone sulle barriere, alimentando il caos.

L’interrogativo principale che dobbiamo porci è se quella duplice barriera di confine andava difesa a ogni costo o il legittimo controllo di qualsiasi confine, in qualsiasi circostanza, non può essere attuato, in un ordinamento democratico, senza garantire la primaria tutela della vita e della sicurezza delle persone. Rispondere che “l’assalto” da parte dei migranti era pianificato non cambia il piano del ragionamento, giacché dobbiamo chiederci se va ancora e sempre cercato un bilanciamento tra il diritto degli Stati al controllo degli ingressi e la inderogabile tutela dei diritti umani fondamentali o se invece abbiamo implicitamente accettato che l’inflessibile controllo dell’immigrazione irregolare rende lecita ogni azione di contrasto, qualunque siano le sue conseguenze. La strage di Melilla ci pone dunque di fronte a degli interrogativi giuridici ed etico-politici cruciali che riguardano il nostro futuro come Europa. Non si tratta di un episodio isolato e irripetibile, è solo maggiore nelle proporzioni ma del tutto simile a episodi già avvenuti nel passato anche recente e potrà riprodursi innumerevoli altre volte, certamente a Melilla con maggiore probabilità per la peculiare posizione di quell’estremo confine d’Europa fuori dall’Europa, ma potenzialmente ovunque lungo i confini esterni dell’Ue.

Una risposta politica, orrida ma possibile, è riprodurre Melilla ovunque adottando, un Paese europeo dopo l’altro, la stessa politica della Polonia, che proprio negli stessi giorni della strage di Melilla, ha annunciato trionfalmente di avere completato la barriera di 186 chilometri (e cinque metri di altezza) lungo tutto il suo confine con la Bielorussia. C’è un’alternativa a questo incubo? La risposta la troviamo, seppure in breve, già nella citata nota del Comitato delle Nazioni Unite laddove ricorda che i migranti a Melilla hanno tentato di entrare in Spagna «sulla base dei loro legittimi diritti umani». A quali diritti si riferisce? In primo luogo al diritto di chiedere asilo; uno dei diritti fondamentali garantiti dal diritto internazionale ed europeo, ma nello stesso tempo un diritto sempre meno rispettato in quanto viene ostacolato nel suo nucleo essenziale, ovvero nel diritto di accedere al territorio dello Stato al quale si vuole chiedere protezione. Se è vero che gli Stati possono chiedere che il richiedente asilo presenti la sua domanda solo in determinati luoghi di accesso e tramite determinate procedure, non possono rendere tale accesso difficile o di fatto impossibile come avviene a Melilla da anni.

Non sapremo mai quanti sono stati i rifugiati che sono morti nella strage né quanti sono stati illegittimamente respinti. Non si tratta tuttavia solo di un problema di rispetto del diritto d’asilo; anzi ci tengo a sottolineare che il nodo è prevalentemente altro e ha a che fare con il diritto, di cui all’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo laddove prevede che «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese». La Dichiarazione non riveste un valore giuridico vincolante ma costituisce il fondamento del diritto internazionale dei diritti umani, oltre a rappresentare uno dei più alti momenti di consapevolezza, nella storia contemporanea, dell’importanza del rispetto dei diritti umani come fondamento della convivenza civile e democratica. La Dichiarazione nasce infatti dal riconoscimento, di cui al preambolo, «che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani [che ha funestato la storia del ‘900 di noi europei] hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità e che «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Accanto alla sua natura giuridica non vincolante è stato fatto osservare che la Dichiarazione non sancisce un chiaro diritto a migrare e non obbliga gli Stati a concedere l’ingresso nel loro territorio.

Osservazioni in parte fondate, ma che non autorizzano a erronee conclusioni; oltre all’inalienabile diritto a godere asilo dalle persecuzioni esiste infatti un diritto a lasciare il proprio paese per cambiare la propria vita ovvero per ragioni che, con misera espressione oggi chiamiamo “economiche”. Un diritto che può essere sottoposto ad ampie limitazioni e condizioni da parte gli Stati in cui i migranti intendono recarsi, le quali tuttavia non possono mai essere così drastiche da stravolgere tale diritto fino a renderlo inconsistente ed inesigibile. Eppure è proprio quanto, da tempo, sta accadendo in Europa, che invece di sviluppare una politica comune per la gestione ragionevole ed equa degli ingressi per lavoro, ricerca-lavoro, studio e formazione, è impegnata a perseguire, con differenze assai modeste tra i suoi Stati membri, una linea di ossessiva chiusura realizzata in larga parte attraverso l’esternalizzazione delle proprie frontiere a paesi terzi, in genere (ma non sempre) confinanti con l’Unione, ai quali, in cambio di ingentissimi fondi e trattamenti politici privilegiati, vengono sub-appaltati compiti di contrasto dei migranti diretti verso Europa, senza preoccuparsi troppo né se il contrasto è rivolto a persone che invece andrebbero protette, né se esso è attuato con metodi estremamente brutali, ed anzi incoraggiando e sostenendo tali condotte in modo che la ferocia agisca come deterrente.

Prosciugando i canali di ingresso per motivi diversi dall’asilo l’Europa ha innescato una situazione esplosiva a tutte le sue frontiere esterne, marittime come terrestri, dove si produce un numero di morti che è paragonabile a quello prodotto da conflitti armati. Nello stesso tempo l’Unione ha alimentato uno dei più redditizi mercati criminali del globo ovvero il traffico internazionale degli esseri umani. Ogni dichiarazione politica ufficiale dell’Ue inizia sempre con un grido di guerra al traffico degli esseri umani ma, all’esatto opposto, ogni effettiva azione messa in campo dall’Unione rinforza tali traffici in una spirale che appare senza fine, ma che tutti fingono di non vedere. La sfida del presente e dell’immediato futuro, che investe la tenuta stessa dell’Europa come progetto di società basate sullo stato di diritto, è operare un netto cambio delle attuali politiche di gestione delle migrazioni internazionali adottando una nuova strategia di ragionata apertura che, strutturando canali di ingresso regolari reali ed effettivi, contrasti veramente il traffico degli esseri umani. Dobbiamo essere consapevoli che abbiamo di fronte cambiamenti di portata storica che non possiamo impedire ma che possiamo, almeno in parte, cercare di gestire. Purtroppo è sconfortante rivolgere lo sguardo al pensiero politico disponibile sul mercato su questi temi: liberticida a destra, inconsistente a sinistra. Difficile dunque nutrire ottimismo. Ma se non svilupperemo in fretta una nuova capacità di gestire i cambiamenti in atto, Melilla diventerà un cupo orizzonte di quotidiana violenza. A Melilla come altrove.