Alcuni anni addietro, la sede del Tribunale penale di Roma fu beneficamente invasa dalla verve di un’iniziativa della magistratura laziale che prese corpo in quella che la Giunta locale di ANM, organizzatrice dell’evento, denominò “la notte bianca della legalità”. Si aprirono in sostanza per un giorno le porte del Tribunale a circa 600 studenti delle scuole superiori, che esplorarono con autentica curiosità (e talvolta persino con sgomento, come quando fu mostrata loro una cella detentiva a dimensione reale messa in bella vista nel centro del cortile della città giudiziaria) i luoghi della Giustizia, scoprendo quanto distanti siano a volte le cose vere dalla idea che ciascuno se ne è fatto a leggere i giornali. A quella iniziativa partecipò compatta e laboriosa anche l’avvocatura del Foro, inscenando piccole rappresentazioni, intervistando ospiti, facendo da chaperon ai ragazzi che ingolfarono allegri i corridoi e le aule, provando a mostrar loro la vera prospettiva del difensore e il suo ruolo nel marchingegno processuale; è stato un bel momento, lo ricordo vividamente.

“Ma che c’entra tutto questo con le indagini difensive?”, direte voi. C’entra, vi dico, perché tra le belle iniziative di quel pomeriggio assolato di maggio del 2015 vi fu anche la messa in scena, nell’aula più grande del Tribunale, quella intitolata a Vittorio Occorsio, di un processo simulato (oggi si direbbe un mock trial) costruito realisticamente per far capire ai ragazzi come davvero funzioni il processo penale. C’erano tutti su quella scena: il Giudice, il Pubblico Ministero, il Difensore, il Cancelliere, il Testimone d’accusa e persino il Testimone della Difesa. Già; il Testimone della Difesa. Sapete come si chiamava nella finzione scenica il Testimone della Difesa? Giacomo Falsetti. Ecco, come direbbe forse il Calvino delle Lezioni americane, a volte per spiegare un’idea non servono cento parole; ne basta una che sia densa: Falsetti. Il nome che chi organizzò quel processo finto diede al teste della difesa racconta con impietosa e millimetrica precisione quale sia, non solo nel sentire collettivo – che sarebbe già quanto dire – ma proprio nel pensiero di alcuni addetti ai lavori, la considerazione in cui si tengono gli sforzi del difensore di contribuire alla equità della decisione.

Servirebbe un trattatello per risalire la china logica di un simile approdo, ma, anche volendo restare nelle poche battute di un articolo così, non è impossibile scovare una plausibile ragione. Il Difensore dell’imputato ha un mandato privato ed è pagato per sostenere le ragioni dell’assistito, quand’anche colpevole; per far questo, non potendo egli contribuire ad accertare altro che l’innocenza purché sia, le prove che raccoglie son solo quelle favorevoli, essendogli deontologicamente negato di accusare l’assistito. Dunque, scontato che il teste della difesa dica sempre ogni bene del processato, la sua credibilità ne esce drasticamente affievolita. Da lì a dire che è anche un po’ insincero il passo è breve. Il fatto che lo pensi l’inesperto di cose del processo (o almeno quell’inesperto che non è incappato nelle maglie vischiose della giustizia) non stupisce, anche se dovrebbe stimolare a far quanto si può per spiegare come stiano davvero le cose. Ma che lo pensi un Giudice, invece, mi pare fatto grave e per due ragioni.

La prima è che non è la natura del mandato (pubblico o privato) a determinare la funzione processuale della parte: che la difesa agisca con determinazione, in maniera tecnicamente quasi aggressiva – purché leale – nel rappresentare la visione della parte assistita non solo è possibile, ma è necessario, perché il ruolo difensivo partecipa alla funzione cognitiva del processo. Non se ne può fare senza. Non dovrebbe interessare dunque a nessuno la ragione di quella contrapposizione, perché essa è uno strumento, non un fine; e questo un Giudice deve saperlo. La seconda è che, messa così, la storia racconta che il processo accusatorio ancora non piace alla magistratura, cosicché – come nel vecchio sistema inquisitorio – bastano gli attori pubblici per fare quanto va fatto, mentre il difensore diventa il simulacro di una garanzia graziosamente concessa, ma vacua.

Vorrei sbagliarmi. Ma se in un video recente ANM, affilando le unghie per la possibile battaglia referendaria sulla separazione delle carriere, ha definito l’avvocato nientemeno che il protettore dell’imputato, temo che le cose stiano davvero così. Temo che l’idea del sistema accusatorio non abbia ancora attecchito e che persino le propaggini processuali delle indagini difensive, benché assistite dagli obblighi di legge e acquisite avanti al giudice, siano ancora affogate nell’acquitrino, alquanto denso, del pregiudizio.