“Si ricordi che quel che ha permesso ai persiani di restare persiani per duemilacinquecento anni, quello che ci ha permesso di restare noi stessi malgrado tante guerre, invasioni e occupazioni, è stata la nostra forza spirituale, non quella materiale; la nostra poesia, non la tecnica; la nostra religione, non le fabbriche. Che cosa abbiamo dato al mondo? Gli abbiamo dato la poesia, la miniatura e il tappeto. Come vede, tutte cose inutili dal punto di vista produttivo. Ma è proprio in esse che abbiamo espresso noi stessi. Abbiamo dato al mondo questa meravigliosa e irripetibile inutilità. Gli abbiamo dato qualcosa che non serviva a rendere più facile la vita, ma ad abbellirla, sempre che una distinzione del genere abbia senso. Per noi, per esempio, il tappeto è un bisogno vitale. Se lei stende un tappeto in mezzo a un deserto rovente e ci si sdraia sopra, le sembra di stare in un prato. Sì, i nostri tappeti ricordano i prati in fiore. Si vedono fiori, giardini, laghetti e fontane. Tra i cespugli si aggirano pavoni. Un tappeto dura per sempre, un buon tappeto mantiene i colori per secoli. Per cui anche vivendo in un deserto spoglio e monotono, è come se lei vivesse in un eterno giardino che non perde mai si suoi colori e la sua freschezza. Può anche sbizzarrirsi a immaginarne i profumi, il mormorio del ruscello, il canto degli uccelli. E allora si sente felice, si sente fortunato, è vicino al cielo, è un poeta”. A citare il libro “Shah-in-Shah” di Ryszard kapuscinski è Davide Viola, un ragazzo italiano originario di Bari appassionato esploratore con l’amore per il viaggio. Non molto tempo fa si trovava in Iran, proprio nella giornata in cui si è diffusa la notizia dell’uccisione del generale Qassem Soleimani.
A tal proposito, Davide ci racconta: “quella mattina ero nella città di Shiraz, nel Sud-Ovest dell’Iran. Venni informato dei fatti da amici che in Italia erano preoccupati a seguito delle prime pagine delle varie testate online. E, mentre il mondo si interrogava su quando e come sarebbe scoppiata la scintilla che avrebbe portato alla terza guerra mondiale, io camminavo con la reflex in mano per le vie eleganti e tranquille della bellissima Shiraz. Nelle prime ore della giornata complice il fatto che fosse venerdì, giorno di riposo, e che quindi le strade fossero semi deserte, non riuscivo a cogliere nessun gesto, manifestazione o discorso riconducibile a quella che, ovviamente non solo in Iran, era la notizia del giorno. Solo verso sera, quando i commercianti che chiudevano botteghe e bazar si riversavano per le strade generando un po’ più di movimento, ho notato che molti di loro tendevano a raggrupparsi attorno alle radio o alle tv accese nei negozi ancora aperti. Facce attente ma nessun segno di rabbia, protesta o voglia di vendetta, a differenza delle facce che invece fanno vedere in tv: persone che urlano nelle piazze, piangono Soleimani e inveiscono contro Stati Uniti e occidente, facce di uomini con barbe lunghe, abiti scuri e turbanti. Facce “cattive” in qualche modo ma con un piccolo dettaglio, non mi risultano familiari. Gli iraniani vestono occidentale nella stragrande maggioranza dei casi. Portano jeans e camicie, scarpe da ginnastica, giubbotti in pelle e giacche in velluto ma, soprattutto, sono davvero in pochi gli uomini che si fanno crescere la barba e praticamente nessuno indossa il turbante a differenza di molte delle persone viste in TV”.
Il giorno dopo Davide arriva a Teheran:“per la prima volta a più di 24 ore dai fatti, vedo con i miei occhi un assembramento di persone che urlano con in mano le foto incorniciate di Soleimani. Di nuovo quelle facce, di nuovo la barba lunga e il turbante. Allora inizio a chiedermi, vuoi vedere che è tutta una montatura? Che è tutto organizzato? Che il regime quando ne ha bisogno porta in piazza la gente mostrando l’immagine di un paese arrabbiato, conservatore nei modi e nei costumi, e soprattutto pronto all’attacco del nemico? E per finire, vuoi vedere che i nostri media vanno a braccetto con questo modo di fare perché a loro volta non vedono l’ora di dare in pasto alla gente le foto di uomini che urlano frasi contro l’occidente in abiti scuri, con la barba lunga e il turbante perché sono il perfetto stereotipo del mediorientale nemico dell’occidente? Sullo schermo del mio telefono apro la pagina di un giornale a caso che ritrae barbe nere che urlano, mentre attorno a me gente che mangia nei fast food hamburger e patatine fritte bevendo coca cola, gruppi di ragazzini che giocano e si rincorrono e ovunque vetrine illuminate. Eccolo il Truman Show mi dico. In quel momento è maturata la consapevolezza di quanto il mondo sia così diverso dalle narrazioni mainstream. Gli unici momenti in cui ho percepito una tensione reale e un senso di preoccupazione per quello che stava accadendo sono stati nel mio Hotel a Teheran il giorno prima di ripartire. Infatti 48 ore dopo il mio rientro c’è stato l’abbattimento dell’aereo ucraino decollato dall’aeroporto internazionale di Teheran, con la conseguente morte di tutte le persone a bordo e della chiusura dello spazio aereo iraniano con conseguente blocco dei voli in partenza e in arrivo”.
Come sappiamo sono giorni infuocati quelli che caratterizzano non soltanto l’Iran ma l’intero scenario mondiale. Dopo il raid americano a Baghdad dove ha perso la vita il generale iraniano Qassem Soleimani, è susseguita una mobilitazione internazionale che ha fatto presagire delle tensioni irreversibili. Una serie di botta e risposta tra Iran e Stati Uniti che si presuppone sia soltanto l’inizio. Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, tra le tante cose ha annunciato tramite Twitter che nelle sue intenzioni ci sarebbe anche quella di attaccare i siti culturali iraniani:“A loro è consentito uccidere, torturare e mutilare la nostra gente e a noi non è consentito toccare i loro siti culturali? Non funziona così” . Il Presidente però è costretto a rispettare l’accordo internazionale sottoscritto da ben 175 paesi nel mondo dove colpire siti culturali è un crimine di guerra come stabilisce la Convenzione dell’Aia per la protezione dei siti culturali del 1954. Per questo le dichiarazioni hanno allarmato non solo Teheran ma anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura. A bloccare in maniera definitiva la minaccia del presidente statunitense infatti è stato l’Unesco, ricordando a Washington che ha firmato la convenzione per la protezione dei siti culturali e che quindi gli Stati Uniti si sono impegnati a preservare i luoghi inseriti nel patrimonio mondiale. Davide, ad esempio, ha deciso di partire per l’Iran raccontando che “nella lista dei patrimoni mondiali dell’umanità dell’Unesco figurano 24 siti iraniani e la voglia che avevo di vedere tra questi almeno quelli che fanno parte, consciamente o meno, anche del nostro bagaglio culturale fin dalle prime lezioni di storia alle medie, è stata alla base della decisione di organizzare il mio viaggio in Iran in solitaria”.
Avendo vissuto l’Iran ed esplorando le sue bellezze, Davide espone la sua reazione come se fosse stato colpito nel profondo: “Il giorno dopo la dichiarazione di Trump circa la messa a punto di una lista di 52 siti da colpire importanti per la cultura iraniana mi sono sentito come… non saprei dire, un umano tradito dalla stessa umanità. Ma come si fa? Non era la solita minaccia, il solito proclamo, la solita provocazione. Non alludeva a un attacco a obiettivi che definiscono strategici come un ponte o una strada o una centrale energetica. Il messaggio rivolto agli iraniani era chiaro e di un’altra natura: colpiremo il vostro patrimonio culturale, cancelleremo la vostra storia. Perché quella è la vostra essenza, la vostra anima, il vostro nome. Perché lì farà più male. Non una risposta militare ma una damnatio memoriae”. Infatti secondo lui “per capire il senso, ammesso che sia possibile farlo, credo sia utile soffermarsi un secondo sul rapporto tra il popolo iraniano e il proprio patrimonio culturale. Patrimonio che è vario, incredibilmente ricco e testimone dell’importanza avuta nei secoli dalla Persia, oggi Repubblica Islamica dell’Iran. Si va dai siti più celebri del periodo achemenide, ai palazzi imperiali degli Scià, passando per enormi Ziggurat, cittadelle abbandonate nel deserto, templi zoroastriani e chiese armene oltre che, naturalmente, grandiose moschee e piazze smisurate”.
IL VIAGGIO – Attraverso il suo racconto è possibile catapultarsi in quei luoghi respirandone la storia e la magia: “In due settimane di strada ho visitato le città di Teheran e di Esfahan, il villaggio di Varzaneh, la città nel deserto di Yazd, le isole del Golfo Persico Qeshm e Hormoz e infine Shiraz. Teheran non è una città particolarmente rilevante dal punto di vista storico-artistico, fatta eccezione per il Palazzo Golestan e per qualche museo e galleria. Ma se la capitale iraniana manca di un grande patrimonio artistico, in città puoi vedere le mille e spesso contrastanti facce dell’Iran, una città che incarna perfettamente l’essenza di un paese la cui storia è stata segnata dalla contaminazione, spesso forzatamente a dire il vero, tra oriente e occidente. Dopo Teheran è stata la volta di Esfahan, sicuramente la città più ricca del Paese in quanto a palazzi, saloni, ponti monumentali, piazze e moschee, e quindi anche la più visitata dagli stranieri. Fiore all’occhiello della città è la piazza Naqsh-e jahān, una delle piazze più grandi al mondo e il primo tra i patrimoni Unesco che ho visitato durante il mio viaggio. Un luogo al tempo stesso cartolina per turisti e punto di ritrovo e commercio per la gente locale e che, forse anche per questo, infonde un fascino particolare. Non è un caso che in farsi il suo nome significhi ‘modello del mondo’ – continua Davide – L’ultima tappa del mio viaggio, il dulcis in fundo, è stata però Shiraz. La città dei poeti e dei giardini di arance, della Moschea Rosa che regala per poche ore al mattino uno dei giochi di luce più incredibili mai visti in vita mia. Ma soprattutto la città da usare come base per visitare la vicina Persepoli, uno dei posti dove respiri la storia del mondo e dove gli occhi non riposano mai. I luoghi come Persepoli sono quelli dove risiede la coscienza collettiva di un popolo (come per noi italiani potrebbe essere il Colosseo) e la propria memoria storica. Sono il loro rifugio e il loro orgoglio”.
Davide per passione e per lavoro ha vistato oltre 34 Paesi nel mondo. Dell’Iran ci descrive il suo viaggio come un’avventura con “zaino in spalla via terra per oltre 1500 km con addosso tutti i contanti portati dall’Italia (in Iran non funzionano i nostri circuiti di bancomat e carte di credito) e due macchine fotografiche. Ci sono ovviamente delle cose da tenere in conto come il modo di vestirsi, specie per le donne, o la non disponibilità di bevande alcoliche, ma nel complesso nulla in più di quanto il buon senso suggerisca circa il comportamento da tenere in un paese straniero la cui costituzione tra l’altro è ispirata alla sharia. Viaggiare in Iran è certamente un’esperienza piacevole per via della bellezza e ricchezza del paese di cui abbiamo già parlato, ma è anche altro. Perché significa, secondo me, almeno altre due cose: avere la possibilità di vedere con i propri occhi quanto siano a noi vicini persone e culture che invece immaginiamo lontani e, quindi, quale che sia il nostro punto di vista sul mondo, avere maggiori elementi di giudizio; ma significa anche tendere la mano a quelle persone che vorrebbero sopra ogni cosa liberarsi dalle etichette e dagli stereotipi che gli offendono e non gli appartengono”.
PREGIUDIZI E FAKE NEWS – Nell’immaginario collettivo occidentale l’Iran appare un Paese islamico pieno di pregiudizi e contraddizioni. Nelle sue due settimane di viaggio Davide ha avuto modo di condividere del tempo con le persone del luogo. In particolare riporta la conversazione avvenuta con Reza, un giovane informatico di Teheran: “Vedi Davide, quello che a me fa più male oggi, la cosa più insopportabile per tutti noi iraniani, potrai anche non credermi, non è la crisi economica o occupazionale”, parole alle quali seguono diversi esempi su cosa significhino in termini reali, quindi nella vita delle persone, le sanzioni imposte all’Iran (inflazione alle stelle con salari al palo, prezzi triplicati su tutti i prodotti di importazione, disoccupazione quasi raddoppiata in due anni e così via), non è addirittura la situazione politica ma è l’immagine che noi iraniani abbiamo agli occhi del mondo”. Secondo Davide “questo è un bene per il suo paese data l’esplosione del turismo di questi ultimi anni. Perché sempre più gente tornando a casa porterà racconti di esperienze dirette in contrasto con tutti i principali pregiudizi di cui sono vittime”. Addirittura racconta di Navid, un ragazzo iraniano che vive all’estero il quale vede cambiare l’espressione facciale, il tono della voce e l’atteggiamento in generale del suo interlocutore non appena saputo il suo paese di provenienza. “Dopo un po’ non ci fai più caso” dice “ed è come se fossi vaccinato” . In merito Davide ci tiene a spiegare alcuni dei pregiudizi di cui l’Iran è vittima: “Non è un Paese sicuro per gli stranieri e nel paese c’è un clima di rancore nei confronti dell’occidente. È vero proprio il contrario. Gli iraniani adorano raccontarsi agli occidentali e lo fanno apertamente. Cercano spesso di offrirti il proprio aiuto. Ad esempio, una sera ero a cena in un ristorante e, mentre me ne stavo da solo sfogliando la guida e segnando dei punti sulla cartina, fui invitato al suo tavolo da un padre di famiglia che non parlava una parola di inglese ma che, davanti ai figli, ci teneva a sincerarsi che avessi visto tutti i monumenti più importanti della città. Quando gli dissi che avevo poco tempo e che sarei ripartito la mattina seguente, si offrì di accompagnarmi in macchina per farmi vedere quelli che mi ero perso. Ed erano le dieci di sera. Gli iraniani vogliono la guerra. In Iran è obbligatorio professarsi musulmano, e a me viene da sorridere se penso a tutte le persone conosciute che affermavano senza nessun timore di essere non credenti o credenti non praticanti. L’Iran, oggi, è governato da un regime a tutti gli effetti. Una teocrazia spesso feroce che lascia pochi spazi alle regole democratiche. Un potere autoritario che si regge, come sempre fanno i regimi, su controllo, censura e paura. Per questa ragione le prime vittime di questo regime sono gli iraniani stessi. La madre di tutti i pregiudizi sull’Iran sia ritenere la maggioranza degli iraniani in accordo col proprio governo, associando l’immagine di un regime fondato sull’integralismo religioso e la negazione dei diritti ad un’intera nazione. Semplicemente non è così. E gli iraniani, oggi, sono vittime due volte: del loro governo in casa, dei nostri pregiudizi fuori”.
Riguardo le fake news, la prima falsa credenza cui Davide tiene a specificare è quello che riguarda l’Iran come un paese arabo: “Un errore grossolano la cui causa principale spiace dirlo ma risiede proprio nel bagaglio culturale personale. L’Iran fino al 1935 si chiamava Persia ed è una terra con una celebre e gloriosa storia a sé, intrecciata tra l’altro a doppio filo con la culla della nostra civiltà, quella greca. Infatti in Iran non si parla l’arabo ma il farsi e non tutti sanno che la parola Iran deriva da “ariano”, a testimonianza della presenza nel suo passato di tribù di origine germanica. Tra l’altro l’Iran è uno dei pochi paesi al mondo tra quelli di religione musulmana a essere a maggioranza sciita, a differenza della quasi totalità dei paesi arabi che sono sunniti. Solo a un osservatore superficiale queste differenze, l’ultima in particolare, potranno sembrare di poco conto ma è come se, parlando di storia antica, si confondessero per dire greci e romani, ritenendo che in fondo erano comunque degli antichi europei”.
Un altro grande errore che si commette quando si parla di Iran è ritenere che la popolazione iraniana nutra sentimenti anti occidentali. Per Davide “non c’è nulla di più sbagliato se proviamo per un secondo a indagare sia ragioni storiche che fatti di stretta attualità. Le prime raccontano di un Paese che dalla metà degli anni 30 e fino alla rivoluzione del 1979 era stato sottoposto, forzatamente e grossolanamente va detto, a un processo di “occidentalizzazione”. Se da un lato l’esperienza di quegli anni seminò nel paese un comprensibile sentimento anti occidentale, dall’altro avviò inevitabilmente un processo di contaminazione culturale unico nel panorama mediorientale. Passando dalla storia comunque recente alla strettissima attualità, c’è una foto che circola in rete in questi giorni e mostra un gruppo di studenti che, per protestare contro il regime a seguito dell’abbattimento dell’aereo ucraino (anche se ad essere precisi sono mesi che si susseguono a intervalli più o meno regolari proteste contro il governo), si rifiuta di calpestare una bandiera americana dipinta sul pavimento. Il paradigma si è completamente rovesciato: la gente manda infatti segnali di apertura addirittura verso il nemico dei nemici, gli Stati Uniti, in virtù dell’atteggiamento di chiusura a quel sistema di valori imposto da parte del regime di oggi. Una cosa non è cambiata in questi anni, ovvero l’assenza di un sistema realmente democratico nel paese, e la conseguente insofferenza degli iraniani nei confronti dell’ordine costituito. Un ragazzo con cui parlavo esattamente di questo, Ahamad, mi diceva che la situazione nel paese è di una costante calma apparente, “come il fuoco sotto la cenere” furono le parole usate per descrivere il rapporto tra la gente e il governo.”
Un ultimo tassello per sdoganare l’idea che si ha dell’Iran, così come la maggior parte degli stati del Medio oriente, come uno stato culturalmente chiuso anche nei confronti delle donne: “Le donne vivono in una situazione di subalternità culturale ancor prima che materiale. È un dato di fatto che le donne vivono in tutto il mondo, non solo in medioriente, in situazioni di non pari diritti e opportunità rispetto agli uomini. Basti pensare a quanti leader e capi di stato donne esistano rispetto agli uomini, o al fatto che la stragrande maggioranza dei messaggi pubblicitari utilizzano il nudo femminile per attrarre la clientela, o ancora alla differenza di salari tra uomini e donne a parità di livello professionale. La questione risulta ancora più evidente poi se circoscriviamo la nostra analisi ai contesti religiosi. Che sia per il cristianesimo, o che sia per l’Islam, le due principali religioni monoteiste al mondo, le donne non hanno le stesse opportunità degli uomini: non una mia opinione ma piuttosto un’ovvietà. Ma la condizione della donna non è la stessa in tutti i paesi mediorientali. L’Iran nello specifico è un paese a maggioranza sciita, ed è uno dei pochissimi paesi al mondo tra quelli di fede musulmana ad esserlo. Una delle differenze più facilmente visibile di questa caratteristica è proprio la condizione delle donne, qui certamente più aperta che altrove. In Iran la gente veste in maniera non così diversa da noi. E questo vale anche per quanto riguarda le donne, al netto di due differenze facilmente intuibili: l’assenza di minigonne o abiti che scoprano parti del corpo come la pancia o il seno, e l’utilizzo dalla pubertà in poi del Hijab come copricapo. Ma ad esempio questo tipo di velo che copre parte della testa e delle spalle, nelle città e dalle donne più giovani viene spesso sostituito da una semplice sciarpa appoggiata sulla testa, da un cappello largo oppure, ancor più semplicemente, da felpe con cappuccio. Mentre non è vero che siano vietati tatuaggi, largamente diffusi tra le teenager, o piercing. Ancora, ovunque ho visto donne gestire in autonomia negozi e botteghe, e ricoprire funzioni pubbliche come i posti di controllo negli aeroporti o nelle biglietterie delle stazioni. In questo caso in un rapporto rispetto agli uomini del tutto simile ad un qualsiasi paese europeo. Riassumendo, in Iran non vedremo mai una donna libera di stare in spiaggia in bikini, o di indossare una minigonna, o semplicemente un vestito che metta in risalto le forme del proprio corpo. Intendo dire che, come spesso accade, le discussioni che si fanno su questo tema, per di più quando si cerca di fare un raffronto tra il nostro modello di vita e quello dei paesi musulmani, spesso sono parziali. Siamo così sicuri ad esempio che, parlando in termini collettivi, valga sempre la pena sacrificare la propria dignità in favore della libertà di vestirsi come si vuole? Al di là di quanto detto in merito alle limitazioni sul vestirsi, o alla divisione degli spazi nelle moschee tra uomini e donne, alle donne in Iran è concesso di fare grosso modo tutto quello è permesso agli uomini in termini di lavoro e vita sociale”.
