La campagna elettorale inglese ha mandato un messaggio inequivocabile ai guru della comunicazione politica in rete: quel che vale on line, non necessariamente si traduce in numeri confermati dalla verità dell’urna elettorale. A caccia di consensi fino all’ultimo like, il giorno del voto in Gran Bretagna, Boris Johnson ha pubblicato su Twitter una foto al seggio accompagnato dal suo cane Dilyn mentre, Jeremy Corbyn, in segno di eterna rivalità, ha scelto di postarne una scattata a casa con un libro di Steinbeck in mano ed il gatto, El Gato, in braccio. Per il migliore amico dell’uomo si sono tinti di rosso quasi tremila cuori (così si illuminano i like sulla piattaforma dei cinguettii), per il felino bianco e nero dall’aria randagia quasi centotrentamila.
La classica e stra-abusata operazione acchiappa simpatia messa in atto dagli strateghi della campagna elettorale inglese dimostra, plasticamente, quanto accaduto nel Regno Unito osservando le dinamiche offerte dai due diversi piani: quello reale e quello virtuale. Mentre i laburisti guidati da Corbyn volavano nei numeri ottenuti sui social network, nel mondo reale i volontari impegnati nel canvassing (la campagna porta-a-porta) conquistavano voti, quelli veri, per Boris Johnson. La “Bestia” laburista britannica, che sul finale non ha azzannato il boccone vincente, per settimane ha invece subdolamente alimentato le false speranze di vittoria del grande sconfitto, illuso dall’idea di vincere così come aveva dominato il consenso in rete.
I video pubblicati su Twitter e Facebook dallo staff di Corbyn hanno via via ottenuto milioni di visualizzazioni lasciandosi alle spalle quelli preparati dai conservatori che non hanno saputo eguagliarne il successo. Se nel 2017, secondo i dati forniti dalla commissione elettorale, la spesa dei Tories per le sponsorizzazioni su Facebook aveva raggiunto le 18mila e 500 sterline, contro le 11mila dei Labour, quest’anno l’investimento del quartier generale di Jeremy Corbyn ha toccato e superato il milione di sterline mentre i conservatori si sono limitati a 780.000 (il conteggio esclude l’ultimo giorno di campagna elettorale). Il problema è che ogni video e ogni immagine lanciati sulla rete hanno avuto l’effetto di rinforzare la convinzione di chi era già deciso a votare Corbyn, ma non hanno significativamente spostato l’opinione di chi, la sua proposta di ricetta socialista giudicata di estrema sinistra e datata anni ’70, non l’avrebbe mai votata. Tutto questo accadeva mentre i Conservatori replicavano on line la stessa dinamica riservata alla comunicazione nelle piazze e in tv. Un unico messaggio rinchiuso in uno slogan d’effetto e tutto dedicato all’unico tema che abbia davvero dominato la campagna elettorale, neanche a dirlo: la Brexit.
Quindi, da una parte c’erano messaggi mirati dal contenuto studiato ad hoc a seconda delle aree nelle quali dovevano essere diffusi, mentre dall’altra, gli avversari, poi sconfitti alla prova del voto, tentavano di spostare l’asse sui temi nazionali e sulla sanità pubblica, in primis, divulgando una serie di messaggi giudicati così dettagliati da generare addirittura confusione. Il risultato finale è stato che, la comunicazione semplice e cucita su misura dai Conservatori intorno allo slogan di facile presa “Get Brexit done” (facciamo la Brexit), ben concentrata sulle terre da espugnare, ha decisamente colpito nel segno. Pur senza fare incetta di like. Nel nord, a trazione tradizionalmente laburista, la promessa di uscire dall’Europa soprattutto quando declinata sugli aspetti collaterali, come ad esempio l’immigrazione, ha fatto breccia; il tutto occultando accuratamente la faccia di Johnson, ancora pericolosamente indigesta per chi ha dovuto cambiare il voto di sempre dando fiducia ai Tories.
L’inconfondibile chioma bionda e scompigliata ha invece fatto capolino nei video diffusi sui dispositivi accesi nelle aree a forte trazione anti europeista, dove cioè, più forte è la volontà di vedere realizzata la Brexit e dove poi, sentirselo dire da Boris rappresentava un valore aggiunto. L’uso fortemente implementato della piattaforma digitale, oltre che dare vita a strategie mirate, si è anche dimostrato complessivamente più audace e aggressivo che in passato.
Era novembre quando, durante il primo duello televisivo tra Corbyn e Johnson, i Conservatori in tempo reale hanno cambiato il nome del profilo Twitter del loro ufficio stampa (80mila follower) per trasformarsi in un falso account, FactCheckUK, impegnato a twittare un improbabile fact-checking atto a smentire le promesse pronunciate dal leader laburista in tv. Twitter in quel caso non ha preso provvedimenti ma ha diffidato qualunque gruppo politico dal riprovarci nuovamente.
Corbyn, preso con le mani nella marmellata dal Financial Times, ha invece dovuto cancellare il Tweet nel quale condivideva ‘strumentalmente’ solo una parte di un video realizzato dal quotidiano dedicato alla diffusione della banda larga. E non sono mancati anche altri video, questa volta manipolati ad arte per dimostrare come, ad esempio, durante una intervista alla Bbc, il delegato alla Brexit dei laburisti restasse in confuso e imbarazzato silenzio di fronte alla domanda del giornalista. In realtà, la clip indugiava sul momento in cui il candidato era intento ad ascoltare, inquadrato in attesa di rispondere; il montaggio però era stato appositamente sfalsato per dare l’idea che non avesse nulla da dire.
Insomma, poco conta se la realtà era un’altra, nel modo social britannico è valso ciò che sembra vero, comprese le fake news costruite ad arte. Peccato che i tanti consensi virtuali illuminati dalla rete non abbiano poi generato un corrispettivo riscontro nel segreto dell’urna. Chi l’ha dovuto capire pagando il prezzo di una dura sconfitta sono stati i laburisti che, più degli altri, hanno investito in questa forma di dialogo con la Gran Bretagna on line, vanamente.
