Narratore di città e coscienze, Maurizio de Giovanni con il suo ultimo romanzo, L’orologiaio di Brest, uscito in questi giorni con Feltrinelli, mette al centro la ricerca della verità — personale e civile — in un’Italia che non ha mai davvero regolato i conti con i propri fantasmi. Come sempre, leggendolo, si allena la mente a scovare micro-verità nei grandi inganni.
Nel suo ultimo romanzo la protagonista è una giornalista che passa dalle inchieste alle indagini sui grandi misteri. I giornalisti sono ancora dei cercatori di verità?
«Sì: è il mestiere più travolto dalle nuove tecnologie. Negli ultimi anni è cambiato radicalmente e continuerà a farlo; oggi è persino difficile ricordare com’era prima».
I misteri, i casi dei quali si occupa, dove ci portano?
«Il romanzo mostra come piccoli eventi del passato plasmino il presente. Raccontando tante storie “minuscole” capiamo meglio la Storia: Vera, la protagonista, è una giornalista ossessionata dal suo lavoro».
Come viene fuori la verità, nei grandi misteri?
«Può zampillare fuori, spinta dal caso: un pentito in punto di morte, un oggetto ritrovato… Non riesco a essere così determinista da immaginare che accada sempre e comunque che la verità venga a galla. Ma può venire fuori, perché no».
Le eventualità che citava prima, a titolo di esempio, sono casuali?
«Alcune situazioni, rilette con nuove tecniche d’indagine, possono parlare. Reperti conservati, tracce trascurate, contesti rivalutati: casi come Via Poma, l’Olgiata, Garlasco possono essere riesaminati alla luce delle tecnologie più avanzate. Molte vicende ritornano perché l’immaginario collettivo non le ha mai davvero abbandonate».
Misteri d’Italia: sul caso Piersanti Mattarella, la realtà sorprende anche il romanziere?
«Il tempo talvolta rimette ordine. C’era sempre stata una pista nera, ora emergono elementi nuovi e, chiaramente, se ne parla. Ma la verità è che l’interesse pubblico non è mai venuto meno. Papa Luciani è stato avvelenato? Che cosa è successo a Ustica? Questi punti interrogativi li conserviamo tutti. E prima o poi qualche risposta arriva».
Una domanda al maestro del poliziesco italiano: è stata votata la riforma della separazione delle carriere. Sarà importante avere un PM dalla carriera distinta dal magistrato giudicante?
«Guardi, ho delle riserve: la mia opinione personale è che io, da cittadino, mi sento più garantito da un giudice rispetto a un inquirente-poliziotto che esamina ciò che ho fatto. Mi faccio domande e non do risposte, perché non ho elementi e non ho competenze, soprattutto».
Non è per la separazione delle carriere.
«Credo che la nostra attuale condizione giudiziaria abbia un grande vulnus, che è la lentezza del processo. Questo vulnus non lo vedo risolto dalla separazione delle carriere. Mi preoccupano il numero dei magistrati e il funzionamento dei tribunali. Penso che questo sia il vero dramma del nostro sistema giudiziario».
Di lei, uomo di sinistra, dicono che sia amico dell’ex ministro Sangiuliano.
«Sì, sono amico di Sangiuliano. E no, non credo nelle appartenenze politiche come etichette. Mi ritengo una persona libera nei giudizi, che possono cambiare a seconda delle persone. Anche se sì, la mia area culturale è sicuramente quella di sinistra. Gennaro Sangiuliano è un uomo innamorato della propria terra: per noi napoletani conta. E poi mi permetta di dire che ho trovato davvero orribile la sua vicenda personale: il linciaggio a cui è stato sottoposto per una questione che esula completamente dalla sua attività».
Lo vede come possibile protagonista di un romanzo?
«Penso che nessuno di noi sia esente da un coinvolgimento sentimentale. Vale anche per me e per lei. Credo che nessuno di noi possa dire che non potrebbe capitargli un caso del genere. Perciò gli ho manifestato fin dall’inizio la mia vicinanza umana. Ma lì c’è stato del voyeurismo. Abbiamo dato il peggio di noi stessi: abbiamo guardato dal buco della serratura. Penso che Sangiuliano abbia attraversato giorni che non si augurano al peggior nemico».
Allora ha fatto bene il Garante della privacy a multare Report?
«Sì, credo che in quella circostanza abbia fatto bene. Intendiamoci: Ranucci fa inchieste coraggiose, Report è un presidio d’informazione, ma quando mi accorgo che ci si focalizza sulla vicenda umana, cambio canale».
Difende Sangiuliano a spada tratta: voterà per lui in Campania?
«Sono amico di Sangiuliano ma non voterò il centrodestra. Di Roberto Fico conosco le idee e ne apprezzo le posizioni. Sostengo il suo programma. E però adesso vorrei essere io a farle una domanda».
Quale?
«Lei non crede che si possa tranquillamente essere amici di qualcuno senza condividerne le idee? E non è una fortuna, questa? Dobbiamo smetterla di guardare con i paraocchi. Se anche non c’è affinità politica, deve esserci rispetto, fiducia, perfino amicizia».
Siamo d’accordissimo.
«Dobbiamo rompere l’assedio dei poli in politica e quello della polarizzazione dei social. Queste dichiarazioni di fede cieca, questi perimetri chiusi, nella realtà non esistono. Io voto a sinistra ma stimo molte persone di destra. Bisogna lavorare per rompere gli accerchiamenti. Per chi fa politica può esserci un vincolo; per uno scrittore non può esistere. Non abbiamo bisogno di nemici, di scontro. E dobbiamo smettere di considerare l’odio come un’opinione. L’odio è un sentimento. Ed è un sentimento sbagliato».
Vale anche per i troppi episodi di antisemitismo che tornano, prepotenti?
«Non c’è dubbio. Netanyahu dovrà rispondere delle sue azioni davanti alla storia, ma chi se la prende con gli ebrei perché odia Netanyahu si mette automaticamente dalla parte del torto. Sono idioti, per citare Dostoevskij.
Autore sul quale, dopo l’aggressione russa all’Ucraina, qualcuno impedì a Paolo Nori di tenere una conferenza: altra idiozia».
Siamo diventati antropologicamente polarizzati. Quelli del bianco e del nero…
«Il nero è il mio genere: scrivo romanzi noir. Quando si scrive un noir bisogna usare tutte le sfumature del grigio. Non ci sono buoni e cattivi. Se ragioni per buoni e cattivi, scrivi un cattivo romanzo».
Lo insegnava Sciascia, con i suoi libri.
«Per me Leonardo Sciascia è stato un cardine assoluto. Ma anche Gadda, Fruttero e Lucentini, Attilio Veraldi. Poi tutto è cambiato con Andrea Camilleri: raccontando il territorio ha parlato del bene nel male e del male nel bene. Dopo Camilleri il romanzo nero italiano diventa un vero movimento: entra in ogni regione, in ogni città, e in un Paese diversificato al massimo produce il suo racconto».
Cosa consiglierebbe a un giovane che vuole diventare scrittore?
«Deve leggere molto, perché non si può pensare di giocare a pallone senza aver mai visto una partita. Chi sa scrivere, prima di tutto, è stato un avido lettore. E poi: bisogna avere una storia. Non funziona “voglio fare lo scrittore”; funziona al contrario: “Ho una storia, adesso devo scriverla”».
Una definizione per il tempo che stiamo vivendo?
«Superficiale. Siamo troppo legati a ciò che sembra; non ci impegniamo a capire come stanno davvero le cose, al di là delle apparenze».
