Come previsto, con la traiettoria post pandemica – ci dice l’ISTAT – si vede un recupero lento dell’occupazione perduta. È un fenomeno già visto in Europa dopo lo shock finanziario 2007-2008. Il recupero pare più sbilanciato sul lavoro dipendente che sull’autonomo, a segnalare un possibile processo di “svuotamento” di un bacino che, storicamente, aveva “compensato” lo squilibrio italiano sui mercati del lavoro. Ancora più colpita, dunque, la classe media che, già da oltre 20 anni, sembra svuotarsi. In parte in controtendenza è un certo recupero nelle fasce dei giovani, e anche delle donne in quasi tutte le fasce di età; se confermato anche nei prossimi due semestri, il trend aiuterebbe a compensare quel gap di genere e generazionale che si era ulteriormente espanso con il primo anno pandemico.

Nel 2021, però, la crescita relativa dell’occupazione con sensibile stabilità dei redditi determina una sostanziale stazionarietà della povertà assoluta, che aveva molto accelerato nel 2020 e che non è arretrata nel 2021, mostrando che quel recupero occupazionale è “scavato” prevalentemente nel precariato. Il mercato sta espandendo il “lavoro povero”, generalmente sottopagato e con scarse protezioni, con grande difficoltà delle famiglie monoreddito, dove il lavoratore è impegnato in settori a bassa produttività (dall’agricoltura, alla manifattura, ai servizi). Come fotografato dal Rapporto ISTAT sul Benessere Equo e Sostenibile (BES) 2021, la pandemia ha ampliato le diseguaglianze occupazionali: tra donne con e senza figli piccoli, e nella fascia di età giovanile fino a 34 anni, con un livello di povertà che, seppur stabile rispetto al 2020, è stimato attorno al 11%. È la difficoltà dei giovani a trovare lavori adatti, con accentuata polarizzazione tra lavori ad alta specializzazione (con molte posizioni vacanti) e lavori a specializzazione medio-bassa, dove la concorrenza è accentuata dalla “contaminazione” del precariato e, dice l’ISTAT, da un sostanziale “sottoutilizzo delle capacità della forza lavoro”.

È una tendenza che irrigidisce fortemente la fluidità-mobilità verso l’alto delle giovani generazioni, soprattutto quelle provenienti da ceti modesti, anche se con un livello di istruzione medio o (anche) medio-alto. È una traiettoria che andrebbe corretta con politiche di sostegno, connessione tra istruzione e reddito, e logiche di formazione focalizzata, perché capace di innescare una crisi sociale, strutturale e di sostenibilità, di lungo periodo. L’analisi delle fasce dei più piccoli e degli adolescenti evidenzia elementi di povertà educativa di cui soffriamo da decenni, ma che la pandemia ha accentuato, con allargamento dei processi di abbandono e di dispersione scolastica; di qui le scelte “fragili e friabili” di questi ragazzi sui mercati del lavoro. E nelle fasce appena superiori, 14-19 anni, emergono stati di malessere e di bassa qualità della vita: ragazzi che dichiarano “insoddisfazione” accompagnata a “solitudini relazionali”.

Il tutto si traduce in un velo di blocco motivazionale ed emozionale sul futuro, che spegne gli orizzonti dei giovani. Vulnerabile anche la condizione dei lavoratori irregolari: secondo le ultime stime, nel 2019 rappresentavano il 12,6% del totale, con la conferma di un’incidenza più elevata nel Mezzogiorno, al 17,5%. Lavoratori che, segnala l’ISTAT, nell’emergenza sanitaria hanno visto un accrescimento dell’insicurezza per i settori più colpiti dalla crisi (turismo, ristorazione e alberghi), e della vulnerabilità, per difficoltà di accesso agli ammortizzatori sociali. Un orizzonte “grigio e incerto” che la guerra in Ucraina non contribuisce a schiarire, da affrontare con politiche attive e di sostegno di scala europea, connettendo lavoro, istruzione e formazione in modo strutturale.