«Bisogna investire in iniziative “green”, predisporsi a una nuova “normalità” post Covid-19 e rimediare all’inadeguatezza del quadro normativo e delle figure a capo dell’autorità portuale»: Gianni Andrea de Domenico, presidente della società Rimorchiatori Napoletani, vive quotidianamente la realtà e le dinamiche del porto di Napoli, e ora spiega al Riformista punti di forza, criticità e investimenti strategici da mettere in campo per valorizzare un fondamentale volano di sviluppo dell’economia cittadina. Con un fatturato di circa 700 milioni di euro l’anno, il porto di Napoli può essere considerato la più grande azienda della Campania, crocevia di merci, porto turistico ma anche bacino energetico del Meridione.
La società Kuwait Petroleum spa (Q8) gestisce in concessione l’area destinata al traffico dei prodotti petroliferi. Ogni anno su quest’area, solo per la società Q8, si movimentano oltre 3 milioni di tonnellate di prodotti destinati all’approvvigionamento energetico, prevalentemente, del Sud Italia. «Il porto di Napoli presenta una grande disponibilità di servizi efficienti per la nave (bacini, rifornimenti, forniture di bordo), per le merci (terminal multipurpose e specialistici) e per i passeggeri (terminal crociere e turistici) – sottolinea de Domenico – Occupa una posizione di centralità rispetto al territorio italiano e rispetto alle rotte tirreniche per le merci, ma anche rispetto alle isole, a questo aggiungiamo un’impareggiabile attrattività turistica e culturale dell’entroterra». Oltre alla posizione “naturale” privilegiata, il porto di Napoli beneficia anche della «mancanza di reali alternative portuali nel raggio di 200 chilometri e di un entroterra a grande vocazione agro-alimentare con target di esportazione extra-europeo, oltre che ai buoni collegamenti stradali con retroterra, interporti e aeroporto».
Tutto questo però ha un prezzo e c’è il rovescio della medaglia da dover considerare. «Uno dei punti di debolezza del porto – afferma de Domenico – è rappresentato dai vincoli orografici, urbanistici e paesaggistici che ne impediscono lo sviluppo e l’adeguamento alle cresciute esigenze delle nuove mega-navi e dei relativi grandi volumi di merci (in parte compensati dagli interporti di Nola e Marcianise)». C’è anche un aspetto culturale che influisce negativamente sulle vicende del porto: secondo qualcuno, quando si dice Napoli si dice mare, ma in realtà non è proprio così. «C’è una scarsa cultura marittima della popolazione e della classe politica che la rappresenta – dice il numero uno dei Rimorchiatori Napoletani – in parte compensata dalla discreta cultura della vicina area sorrentina e insulare. Mi verrebbe da dire che il mare non bagna Napoli». Ci sono altri nodi da sciogliere per restituire al porto di Napoli il ruolo che merita.
«I collegamenti su ferro, specialmente per le aree retroportuali e interportuali sono inadeguati – sottolinea de Domenico – Inoltre riscontro un’eccessiva litigiosità degli operatori che non riescono quasi mai a fare squadra, preferendo ostacolare il vicino per garantire “orticelli” piuttosto che allearsi per competere con i porti concorrenti». Bisogna rivedere anche le norme che regolano l’attività del porto e la formazione della figure professionali dell’autorità portuale. «L’inadeguatezza del quadro normativo e la lentezza della macchina burocratico-amministrativa rallentano o impediscono la realizzazione di opere indispensabili per la manutenzione di banchine e fondali – afferma de Domenico – Occorre sottolineare anche l’inadeguata capacità professionale delle figure (spesso commissari senza reale mandato) poste per venti anni a capo dell’Autorità portuale di Napoli».
Cosa fare, quindi, per consentire lo sviluppo di una realtà economica così importante per la città? «Bisogna investire in iniziative “green” per non danneggiare l’ambiente, necessario per far prosperare la vera ricchezza dell’economia napoletana e campana costituita dal turismo e dall’agroalimentare, attraverso l’utilizzo estensivo di tecnologie a basso impatto ambientale – conclude de Domenico – Dobbiamo anche pianificare una nuova “normalità” post-Covid che dovrà fare i conti con fluttuazioni repentine di attività, presenze e con l’applicazione di standard di sicurezza e controlli sanitari per merci e passeggeri di tipo aeroportuale, non più affidabili a operatori o a organizzazioni non adeguatamente formate».
