No al perdono ma lasciate che quel vecchio malato torni a casa

Care mogli e genitori e figli e sorelle e fratelli di chi non c’è più, e non c’è più perché qualcun altro gli ha tolto la vita. Qualcuno di cui voi volete sia punito perché vi ha dato un dolore che vi ha straziato e poi una rabbia orgogliosa che è come un grumo che vi riempie la gola e non sempre viene fuori. Ma che quando esce, non chiede solo giustizia. Magari neanche vendetta. Ma piuttosto cancellazione. Come succede, come sta capitando in questi giorni, se una persona che si è macchiata di gravi reati stia per lasciare il carcere, perché ha terminato di scontare la pena, magari dopo trent’anni, e anche perché è gravemente malata.

Una persona che voi forse non conoscete, né che mai avreste voluto conoscere, e con ragione. Una persona che non è l’assassino di chi voi amavate e non avete potuto più amare perché uno come quello lì che sta per uscire ve l’ha tolto.
Ma è “uno di loro”, un mafioso, un uomo della camorra o della ‘ndrangheta. Uno che comunque ha sparato e ucciso. O mandato altri a uccidere. Uno che ha violato la terra in cui voi vivete, uno che l’ha sporcata e ora sta tornando, e voi non lo volete vicino. Lo volete cancellare.

Uno che per voi non è neanche persona, non solo perché lo disprezzate, ma perché non potete dargli corporeità, non potete concedergli sentimenti, non potete mettere insieme la sua mano che spara con l’altra parte del suo corpo, quella che soffre la malattia, forse la fine della vita. Voi non volete la pena di morte, ne sono certa, né vorreste mai fare a nessuno quel male che è stato fatto a voi. Semplicemente vorreste che quell’assassino che ha dato la morte a colui che amavate, e tutti quelli come lui, sprofondassero in un buco nero fino a non esistere più. Voi vorreste che il carcere fosse un luogo oscuro capace di inghiottire e cancellare.

Gettare le chiavi, è un’espressione che sulla bocca dei politici fa schifo. Nella vostra mente è un tentativo di straniazione, di metter al riparo in un’altra parte della mente il vostro dolore, uccidendo il fantasma di chi ha sparato. Non pensate al fatto che anche la pena è qualcosa di indelebile, che quando un uomo ha perso la libertà, l’ha persa per sempre. Non immaginate che il fatto di “render male per male” sia già in sé un’ingiustizia né che, se il delitto in sé è fatto irrazionale e tremendo o di razionalità deviata, la riposta non può esser viziata dalla stessa deviazione. Neanche nel nome di astratti criteri di giustizia sociale.

Si crede che la pena del carcere sia solo privazione di libertà. Non è così. Il carcere è prima di tutto mortificazione del corpo, è privazione di ossigeno, è perdita di coscienza del tempo e anche dello spazio. Per questo sarebbe importante, mentre siamo tutti aggrediti da un virus sconosciuto, poter ridare ossigeno e spazio alle persone rinchiuse. Ma prima occorre la fatica di saperle ricomporre come persone. Vedere un vecchio come un vecchio, un malato come un malato. Lasciar per strada le simbologie e anche il sangue. Nessuno vi chiede di perdonare, sarebbe una sciocchezza. Ma solo di dar valore alla vita e alla salute come diritti, e anche come bisogni, primari. Di tutti.

Lasciate che un vecchio mafioso malato che ha già scontato la sua pena torni nella sua casa. La sua presenza fisica, e non più simbolica, non può sporcare la vostra terra, non più. E’ un vecchio al termine della sua vita. Non vi si chiede di chiudergli gli occhi, ma di lasciare che lo facciano i suoi cari, che vedono di lui un corpo malato, non un simbolo.