Il parere
No alla cassa integrazione per il troppo caldo: impatta sul bilancio dello Stato e può spianare la strada agli abusi
Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sulla cassa integrazione a ore per quei lavoratori costretti a lavorare con temperature elevate. Favorevole Andrea Volpi, Deputato Fratelli d’Italia, secondo cui “così vengono tutelati i lavoratori e si possono prevenire le morti bianche“. Contrario l’imprenditore Eugenio Filograna che avverte: “Può impattare sul bilancio dello Stato e spianare la strada agli abusi”.
Qui il commento dell’imprenditore Eugenio Filograna:
Le ondate di calore stanno diventando sempre più frequenti ed intense a causa del cambiamento climatico globale. Questi eventi climatici estremi rappresentano una sfida significativa per molte aziende, specialmente per quelle che operano in settori esposti a rischi legati alle alte temperature. La decisione di fornire la cassa integrazione o altre misure compensative alle aziende che decidono di chiudere durante le ondate di calore polarizza il dibattito. Da un lato tali misure possono fornire sostegno ai lavoratori e promuovere una maggiore responsabilità ambientale; dall’altro lato potrebbero avere impatti finanziari e inerpicarsi lungo un crinale scivoloso. Una cosa è certa.
Tutti noi, imprenditori o dipendenti, professionisti o commercianti, autonomi e partite Iva, siamo chiamati a rispondere all’aumento delle temperature mettendo in atto le contromisure adeguate. C’è chi sostiene che tanto varrebbe stare a casa: lasciare i dipendenti al fresco il tanto che basta a far passare l’emergenza, evitando così eventuali malesseri e rendendo loro migliore la qualità della vita. Suggestivo. Cioè: frutto di suggestione. E non privo di controindicazioni, che provo qui ad elencare. Intanto, l’impatto economico del quale non si può non tener conto. Fornire la cassa integrazione o altre misure compensative alle aziende può avere un impatto significativo sul bilancio dello Stato o delle aziende stesse. Questi incentivi richiedono risorse finanziarie, che potrebbero essere impiegate altrove per altre necessità urgenti o progetti di sviluppo.
Per non parlare poi dei rischi di abuso: l’introduzione di misure compensative potrebbe aprire la porta a possibili abusi da parte delle aziende in un contesto che per rapidità di decisione e singolarità del processo non prefigura adeguati controlli. Potrebbero esserci casi in cui alcune imprese potrebbero approfittarsi delle misure senza una reale necessità di chiudere, causando un costo economico e sociale ingiustificato. A questo proposito, varrà la pena di pensare anche – da avvocato del diavolo quale deve essere ogni analista economico – all’incentivo alla chiusura che si nasconde nelle pieghe del provvedimento. Alcune aziende potrebbero vedere le misure compensative come un incentivo a chiudere durante le ondate di calore, invece di adottare soluzioni alternative per affrontare il problema, come l’adeguamento dell’impianto di raffreddamento, la pulizia dei filtri dell’aria condizionata o che so, un pullmino nuovo per gli spostamenti degli operai verso il cantiere.
Credo che su questi punti lo Stato dovrebbe ragionare mettendo a disposizione incentivi per rendere nei fatti migliore la condizione di lavoro dei dipendenti e dunque la qualità della vita delle persone. Ma non basta. I dipendenti godono già di giusti diritti. Ci sono i permessi retribuiti e quelli non retribuiti. La malattia, per chi si sente poco bene (vittima, ad esempio, di sbalzi di pressione per il calore). Esistono istituti che si possono adattare a tutto e sono costi aziendali già calcolati. Perché creare altri sprechi oltre quelli che lo Stato ci addebita per le sue inefficienze, per 250 miliardi l’anno?
Se vado indietro con la memoria, ricordo estati torride e inverni rigidi. I miei nonni andavano al lavoro pedalando in bicicletta molti chilometri sotto al sole della Puglia. Se penso a loro, non posso nascondere un moto di orgoglio e qualche nostalgia. C’era la tempra, il carattere. La determinazione. In condizioni difficilissime, si dava il massimo per raggiungere il posto di lavoro. E nei campi, nelle fabbriche, nelle aziende non esisteva né aria condizionata, né frigobar. I tempi per fortuna cambiano. Certo, il progresso è questo: si lavora meglio, si rispettano di più i diritti della persona. Ma attenzione a non abusare.
Perché se le avversità climatiche sono quelle del troppo caldo, poi sono anche quelle del troppo freddo. Cosa faranno in Finlandia l’inverno? Chiederanno di lavorare in smart working perché nevica troppo? E nel Surrey inglese si chiederà di introdurre la cassa integrazione perché piove troppo? Alle Canarie ci si potrà rifiutare di andare in ufficio perché c’è troppo vento? Avete capito dove vado a parare: l’uomo deve essere protagonista del cambiamento e metterlo al suo servizio, rispettando la natura, lavorando per ripristinare un clima mite. Ma non può e non deve darsela a gambe levate. La produttività del nostro Paese e dei paesi del Mediterraneo negli ultimi anni sta risentendo di una certa fiacca. Non ce lo possiamo permettere. Rimbocchiamoci le maniche, usciamo prima al mattino, teniamo la temperatura interna in tutte le aziende a 24/25 gradi e tutto andrà bene: il sistema Italia va incoraggiato a fare meglio, non spinto a fermarsi. Solo attraverso una combinazione di politiche sostenibili e innovative sarà possibile affrontare efficacemente i cambiamenti climatici e proteggere sia l’occupazione che l’ambiente. D’altronde dobbiamo ancora pagare i danni per le imprese fermate dal Covid, non appelliamoci a nuove possibili fermate. Chi si ferma, mi insegnavano da piccolo, è perduto.
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