Ripeti spesso che siete tutti volontari al Baobab, allora comincio chiedendoti: ma tu che lavoro fai?
Ho una vetreria. Faccio vetri, specchi e restauro vetrate artistiche.
Come capita che un vetraio incominci a montare tende per far dormire i migranti?
Mi è capitato perché da sempre faccio attività politica, a Roma, la mia città. Sono stato consigliere dal 2000 al 2008 nel municipio che allora era il terzo, per intenderci San Lorenzo, Piazza Bologna, quelle zone lì.
Ma inizi nella politica scolastica, immagino.
Sì, inizio nella Federazione dei Giovani Comunisti Italiani negli anni Ottanta. Mi appassiono ai temi di politica internazionale, ho la fortuna di avere una famiglia che passava pranzi e cene a parlare di politica. Erano gli anni Settanta e questi discorsi dei grandi, dei miei genitori e dei loro amici, mi affascinavano. E poi era una famiglia che mi ha permesso di viaggiare, ho vissuto per un periodo a New York, ho girato l’Europa.
Cosa leggevi?
Sono diventato comunista leggendo più Jack London e Mark Twain che i padri critici del pensiero politico.
E dopo?
Dopo aver fatto il consigliere municipale e con la fine dei partiti politici, della vita di sezione, delle grandi ideologie io mi sono disamorato di quella politica lì. Era una dimensione che non faceva più per me.
E allora?
Allora non sentivo più di appartenere a nessuna casacca, ma continuavo a coltivare interesse per alcuni temi, la Palestina, i paesi distanti.
Quando arriva Baobab?
Baobab io l’avevo visto nascere, grazie alla mia attività di consigliere, perché era proprio a San Lorenzo. E ho iniziato come tutti i cittadini che si trovavano a passare da via Cupa e vedendo le centinaia di persone migranti si fermavano a chiedere se si poteva dare una mano in qualche modo. Era l’inizio dell’estate del 2015, quella della prima grande ondata migratoria, dei cosiddetti barconi. Tutti i migranti che arrivavano a via Cupa non avevano alcuna intenzione di fermarsi in Italia, volevano proseguire il viaggio e soprattutto quelli delle comunità del Corno d’Africa e i sudanesi passavano da Roma, così noi abbiamo iniziato a organizzarci. Un po’ per intraprendenza e un po’ perché conoscevo bene il territorio e le istituzioni locali sono diventato rapidamente un punto di riferimento per queste persone.
Quali sono state le prime attività di Baobab?
Preparavamo colazioni, pranzi e cene per otto-novecento persone al giorno, e poi cercavamo di interloquire con gli enti locali per trovare alloggi e iniziavamo a mettere su una rete di supporto legale.
Come inizia la stagione degli sgomberi?
Alla fine del 2015 ci avvisano dello sgombero perché gli edifici di via Cupa in cui c’era la prima struttura del Baobab andavano restituiti ai legittimi proprietari. Nel frattempo il Baobab era cresciuto in popolarità, sia in Italia che fuori, ma eravamo già tutte facce nuove rispetto alla prima esperienza. Così decidiamo di mantenere il nome, Baobab, perché il rimando all’albero che per chi migra è quello che protegge dalle tempeste e dal sole, che dà frutti nutrienti e sulle cui radici si fondano villaggi ci piaceva. Ma gli aggiungiamo Experience, un po’ per giocare con la Jimi Hendrix Experience e un po’ perché è davvero stata un’esperienza. Arrivava chiunque: studenti stranieri, la vecchietta fedele della chiesa vicina, la pensionata, quelli delle vecchie sezioni di quartiere, famiglie. Nel frattempo era caduta la giunta Marino, c’era il prefetto Tronca e con lui gestiamo in qualche modo lo sgombero.
Che vuol dire?
Comincia una trattativa in cui chiediamo che i migranti ancora presenti nella struttura siano sistemati, gli edifici sono riconsegnati ma otteniamo di tenere sulla strada due piccole strutture mobili perché oramai quella via era un punto di riferimento per i migranti in transito. Era già dicembre a quel punto quindi gli arrivi erano molto ridotti e riusciamo a lavorare con la sala operativa sociale trovando posto a chi arriva. Ma da lì in poi è stato un continuo e abbiamo iniziato le peregrinazioni: centinaia di migranti in transito, decine di tende e tanti, troppi accampamenti.
Come si arriva alle imputazioni e al processo?
La storia di questo processo è legata proprio agli sgomberi. Non solo via Cupa è chiusa con camionette da ogni lato, ma ci viene detto che se si creeranno altri assembramenti saremo perseguibili legalmente e così noi cerchiamo di accelerare gli aiuti per chi arriva e vuole andare via. Poi, due anni fa, qualche giorno prima del lockdown, so che sono imputato in un processo.
Qual è la tua reazione?
Ero incredulo. Non solo perché noi abbiamo sempre agito alla luce del sole, proprio in strada, più visibili di così! Ma poi perché negli anni di attività del Baobab abbiamo aiutato centinaia e centinaia di persone e che quel viaggio di 9 persone per cui io e altri due volontari siamo imputati sia all’origine di un processo mi pareva un assurdo. Fatico ancora a capire il reato dov’è.
E che succede in due anni?
Ben poco. Le udienze del processo sono continuamente rinviate, ce n’è stata solo una in cui abbiamo reso le testimonianze noi e poi anche il coordinatore del centro di accoglienza della Croce Rossa di Roma, in via del Frantoio, che ha testimoniato che anche loro inviavano i migranti a Ventimiglia perché era l’unico centro che potesse ospitarli. E basta, ora aspettiamo la sentenza il 3 maggio.
Cos’è per te l’accoglienza?
Guarda, noi siamo stati da poco in Ucraina per aiutare a evacuare soprattutto gli studenti di origine africana bloccati a Cherson perché né li arruolavano nell’esercito né potevano abbandonare il paese con i canali ordinari. Ecco, noi abbiamo passato cinque frontiere per riportare le famiglie ucraine qui e mentre le attraversavamo – fra l’altro due erano frontiere extracomunitarie – eravamo accolti come eroi. Ma il punto è che il passaporto ucraino è extracomunitario esattamente come quello, chessò, ghanese. Allora io non capisco. Da una parte i plausi, dall’altra per aver aiutato nove poveri cristi ad andare da un marciapiede di Roma al letto di un centro di accoglienza rischiamo 18 anni di galera. C’è qualcosa che non torna.
Qualsiasi sia la sentenza del 3 maggio, continuerai a fare quel che fai?
Certo. Vorrei poter dire a cuor leggero che credo nella giustizia, ma non lo so più. Credo però, questo sì, che bisogna continuare a investire nell’accoglienza. Conoscere queste persone e farle conoscere aumenta la sicurezza di tutti. La sicurezza è lesa solo da chi manipola in modo xenofobo la libertà di movimento.
