L’ambasciatore di Israele, Dror Eydar, è a fine mandato: saluta l’Italia e torna a casa. L’occasione per il commiato è data, giovedì scorso, dalla presentazione del libro “All’arco di Tito. Un ambasciatore d’Israele nel Belpaese”, appena pubblicato dall’editore Salomone Belforte. La riunione si tiene presso la sua residenza ai Parioli. Un evento privato, con una ristretta cerchia di invitati. Trenta persone. Ci sono diplomatici e amici di Israele. Alcuni giornalisti e anche qualche parlamentare. Il più atteso è Matteo Salvini. Quando arriva, occupa il posto più vicino al padrone di casa. Protetto dalla riservatezza dell’incontro, il leader leghista confida finalmente di poter tirare il fiato.
Per lui la giornata si era aperta male: La Stampa ha affondato il colpo sul tema delle relazioni pericolose tra via Bellerio e il Cremlino. Dietro alle prese di posizione filorusse del Carroccio, secondo il quotidiano torinese, si anniderebbe l’interessamento nient’affatto velato dell’Ambasciata della Federazione Russa a Roma. E dalla mattinata Salvini si trovava a far fronte al fuoco di fila dei tanti – dai media al Parlamento – che hanno protestato nell’attesa di ricevere con urgenza un chiarimento. Con Israele, Salvini non vuole fare gaffe. Deve scongiurare altri scivoloni. È stato a Gerusalemme e Tel Aviv, da ministro dell’Interno, e appena possibile non manca di dirlo. Gli chiedono un intervento di saluto, prova a stare sul tema del dialogo tra civiltà, centrale nel libro dell’ambasciatore Eydar. “A me di Israele piace il suo saper essere crocevia di tante culture diverse”, inizia col dire Salvini. Sorrisi compiaciuti. Qualche sospiro di sollievo. “Certo – si riprende poi il leghista – il mio modello, quella che per me è la società ideale, è rappresentato dall’Ungheria di Orbàn”.
La voce dal sen fuggita fende l’aria. Gli sguardi s’abbassano in fretta. “Ma che dice?”, devono aver pensato i padroni di casa. L’Ungheria di Orbàn. Se c’è un modello del tutto antitetico a quello del cosmopolitismo all’israeliana, ecco, è forse quello ungherese. Un sovranismo radicale, tradizionalista, più ruspante che agrario. Una cultura monocorde, monolinguistica, autarchica fino all’isolazionismo. Al centro di continui braccia di ferro con l’Unione europea per le sue intemerate razziali, Orbàn solo tre giorni fa aveva detto: «Siamo disposti a mescolarci gli uni con gli altri, ma non vogliamo diventare popoli di razza mista». Parole lontane dall’andare nella direzione degli intrecci culturali, quelle del presidente ungherese, che avevano scatenato già un terremoto a Budapest e a Bruxelles. Forse non era così opportuno rivangarle in casa della diplomazia israeliana.
