L'editoriale
Pace in Medio Oriente, l’Italia torna in prima fila tra i grandi del mondo
Non c’è bisogno di rivangare la teoria del domino di Dwight D. Eisenhower. Ormai è sotto gli occhi di tutti come il 7 ottobre abbia innescato un processo cumulativo che va ben oltre Gaza. E come questa prima ipotesi di pace stia diventando la tessera di un mosaico assai più vasto. Gli stessi attori della concertazione ne sono testimonianza. Stati Uniti, Paesi sunniti del Golfo, Turchia, Pakistan, Indonesia individuano possibili linee di alleanza strategica che seguono un percorso Ovest-Est, tagliando fuori un’altra catena geopolitica, quella che va da Pechino a Mosca e Teheran.
Un nuovo ordine cristiano-musulmano, perciò assai diverso dallo storico asse atlantico? Una sorta di Yalta che individua i confini di un’alleanza globale e si prepara a far fronte ai propri competitori politici, militari e ideologici? Difficile dirlo. Tutto è in movimento. Nessuno sa quali saranno le reazioni di Russia e Cina. E quali le reazioni degli ayatollah, i grandi sconfitti di questa prima bozza geopolitica. Certo è che la débâcle di Hamas e degli altri proxy iraniani (grazie a Israele) sta mettendo in moto un domino planetario inimmaginabile soltanto qualche mese orsono.
E tuttavia fa scalpore la mancanza di una tessera che, storicamente, sarebbe stata essenziale nel disegno degli equilibri internazionali. L’Europa è rimasta ai margini del conflitto in Medio Oriente. Ha mostrato un protagonismo poco lucido. Da Sánchez a Macron, gli europei hanno finito per prendere le distanze da Netanyahu e da Trump, hanno chiesto sanzioni per lo Stato ebraico, hanno riconosciuto un’entità palestinese tuttora inesistente, sono apparsi privi dello sguardo lungo che si chiede alle diplomazie. Che partecipino o meno alla solenne cerimonia del Cairo, lunedì prossimo, saranno nel migliore dei casi spettatori di un evento che si annuncia storico.
Un amarissimo silenzio politico al quale fa eccezione, oltre alla Germania di Merz, l’Italia di Giorgia Meloni. Non l’Italia dell’“Intifada”, dei cortei oceanici, degli slogan che plaudivano al 7 ottobre, delle flottiglie all’assalto della Marina israeliana. Non l’Italia delle sinistre compiacenti, dei pentastellati antisionisti, delle signore onusiane. Quella chiamata al Cairo è l’Italia di un governo di centrodestra che ha saputo resistere alla piazza e ai media, che è rimasta solidale con Israele pur condannando la morìa di Gaza, che si è rifiutata di riconoscere la Palestina a costo di prendersi l’accusa di connivenza genocidiaria. Un’Italia che non perdeva la testa davanti alla “minaccia” trumpiana. Che nel frattempo lavorava al Piano Mattei, cercando accordi di partenariato con i Paesi africani. Che firmava l’ambizioso progetto del corridoio Imec, un percorso destinato a beni, energia e connettività che dovrà collegare India, Medio Oriente ed Europa. Un’Italia intenzionata a cancellare il folklore dell’Italietta. Che poi quello di Giorgia Meloni al Cairo sia soltanto un posto in prima fila o addirittura un posto al sole, si vedrà.
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