Per fortuna che c’è Pierluigi Bersani, il leader che ha ritrovato lo smalto dei tempi migliori

Nell’analisi della guerra, che scruta seguendo una lettura combattiva rispetto al conformismo politico e mediatico, Pier Luigi Bersani sta ritrovando lo smalto dei tempi migliori. Bisogna riconoscerlo ed essergli anche grati perché, con il suo piglio appassionato nella terapia e lucido nella interpretazione, restituisce una dignità agli eredi del vecchio Pci, che non meritavano la disillusione disperata dinanzi alla babele ideale nella quale sono caduti i suoi più antichi dirigenti.

Tra la triste parabola di capi di più elevato rango che intraprendono la carriera del mediatore nella vendita d’armi, i profeti alla Veltroni che esaltano la “guerra metafisica per la libertà”, la perdita di senno di Rondolino, già scrittore di comizi per due segretari, che accusa Luciana Castellina di aver “scelto gli assassini, i torturatori, gli stupratori”, gli inquilini di Botteghe Oscure sembravano degli ospiti abituali di un osceno luogo della perdizione. Assistendo alla metamorfosi opaca dei tanti quadri della leva berlingueriana post-sessantottina, alla conversione guerresca di molte penne uscite dalla rinomata scuola dell’Unità, la leggenda della “diversità” comunista si tramutava in una formula grottesca e mistificante. La battaglia di Bersani per interpretare in termini politici articolati la guerra restituisce un minimo di fierezza vitale agli orfani di una tradizione e, in fondo, smonta anche una vecchia storia circa la considerazione che a Botteghe Oscure serpeggiava sulla qualità del ceto politico dell’Emilia Rossa.

Il sospetto coltivato nel Pci dal nucleo aristocratico di comando nei tempi d’oro del fulgido modello del partito chiesa era che da Bologna e dintorni provenissero grandi amministratori, abili costruttori di eventi di massa, raccoglitori instancabili di fondi, ma che il loro cervello politico e strategico fosse alquanto limitato perché tutto rinchiuso entro la pragmatica gestione del contingente quadro degli interessi sociali secondo una ottica attenta alle compatibilità date. Questo pregiudizio circa l’impossibilità di ricavare un grande leader dal personale amministrativo locale emiliano, che pure era in grado di progettare un affascinante modello economico a base territoriale, fu da ultimo riproposto da un togliattiano puro come Macaluso. Interrogato sulla figura di Bersani, egli lo definiva una gran brava persona, un ottimo presidente della regione e un assai capace ministro riformatore con le sue ardite liberalizzazioni, ma con delle attitudini di direzione politica per lo meno dubbie.

In fin dei conti, questo vecchio pregiudizio sui governanti emiliani come congenitamente inadatti a ricoprire i ruoli politici nazionali di leadership pesò anche nelle valutazioni di Napolitano, che accolse con scetticismo dapprima la foto di Vasto con un irresponsabile Di Pietro che bombardava in maniera scomposta il Quirinale e poi le richieste di incarico di Bersani all’indomani della “non vittoria” del 2013. Sono da consegnare ormai alla più distaccata analisi storica le vicende di quegli anni. Rimane il fatto che negli errori, nelle illusioni anche, Bersani, della sua generazione, resta il solo della antica ditta del Pci a non essere travolto nella perdita di ogni credibilità e ruolo. Cosa fare di questa sua sorprendente resistenza all’usura? C’è la suggestione, coltivata con una certa mitologica nostalgia di Conte, di contribuire nella conversione del M5S da formazione populista micro-aziendale nel Podemos italiano. Un’impresa ardua, non del tutto impossibile, ma in fondo una scommessa. Del resto, anche l’altra via, quella dell’ingresso nel Pd, non è meno densa di incognite.

Lo stato attuale del Pd è descritto con la consueta precisione da Stefano Folli. “In questi mesi il Pd di Letta è diventato altra cosa rispetto al partito egemonizzato dalla corrente post-comunista e proteso a gettare un ponte verso il gruppo di Bersani. Letta si è sforzato di ricollocarlo al centro, con l’idea di farne un riferimento attraente anche per quel mondo moderato che si era allontanato verso destra”. La “malattia” del Pd non era dunque Renzi, come è stato detto con una semplificazione analitica fuorviante. Sotto il profilo della cultura politica, secondo una valutazione realistica, Letta ha collocato il Nazareno in uno spazio politico persino più a destra di Italia Viva e della formazione di Calenda. Il rientro nel Pd per le truppe di Bersani non ha per nulla il gusto di chi torna accolto con tutti gli onori perché ha avuto ragione.

Somiglia piuttosto al semplice accasamento in un vecchio luogo che l’atlantismo bellico più rigido ha reso ancor più inospitale e irriconoscibile. La piena vendetta del quadro politico emiliano, contro la credenza antica sulla sua scarsa propensione all’esercizio della leadership creativa nelle organizzazioni complesse, potrebbe essere consumata solo se Bersani si decidesse a guidare quello che resta dei capitani verso una ricostruzione di uno spazio di sinistra. Perché non tentare una modesta “guerra alla guerra” per confezionare una credibile offerta politica alla sinistra smarrita e senza una bussola identitaria dopo la virata bellicista del Pd di Letta, Guerini e Franceschini?